BIOGRAFIA |
Nata nel 1940 a Solingen, in Germania, inizia a studiare danza nel 1955
alla Folkwang-Schule di Essen, diretta da Kurt Jooss, dove si diploma
nel 1958. Nel 1959 riceve una borsa di studio per proseguire la
propria fornazione negli Stati Uniti, e tra il 1960 e il 1961 segue i
corsi della Juilliard School of Music di New York, dove ha occasione di
venire in contatto con José Limon, Antony Tudor, Margaret Craske, Louis
Horst, Mary Hinkson, Ethel Winter, Helen Mc Ghee, Herbert Ross e La
Meri. Entra a far parte della compagnia di danza di Paul Sanasardo e
Donya Feuer. Nel ’61 lavora nella compagnia della Metropolitan
Opera House di New York, diretta da Antony Tudor, e in seguito
nell’American Ballet Theater, collaborando soprattutto con Paul Taylor.
Tornata in Germania nel 1962, si unisce al Folkwang-Ballett, rifondato a
Essen da Kurt Jooss, e con questa compagnia si esibisce allo
Schwetzinger Festival, al Festival dei Due Mondi di Spoleto, allo
Jacob’s Pillow Dance Festival (Usa) e al Festival di Salisburgo,
collaborando con coreografi come Kurt Jooss, Antony Tudor, Lucas Hoving,
Jean Cébron e Hans Züllig. Nel 1968 firma
la sua prima coreografia: “Fragment”, creata per il Folkwang-Ballett su
musica di Béla Bartòk, e l’anno successivo crea “Im Wind der Zeit”, su
musica di Mirko Dorner. Dal 1969 al ’73 è
direttrice artistica, coreografa e danzatrice del Folkwang-Ballett, col
quale compie numerose tournée nel mondo. Nascono nuove coreografie:
“Nachnull” (1970, per il Rotterdam Danscentrum), “Aktionen für Tänzer”
(1971) e il “Baccanale” del wagneriano “Tannhäuser” (1972). Nel
1973 le viene conferito l’incarico di direttrice e coreografa del
Wuppertal Tanztheater, che di lì a poco assumerà la denominazione di
“Tanztheater Wuppertal di Pina Bausch”. Porta con sé, in questa nuova
esperienza, alcuni danzatori del Folkwang-Ballett, divenuto nel
frattempo Folkwang-Tanzstudio. Le creazioni del 1974 sono
“Fritz”, “Iphigenie auf Tauris” (sull’opera di Gluck) e “Ich bring dich
um die Ecke”. Con “Adagio-Funf Lieder von Gustav Mahler”, Pina Bausch dà
inizio a una fertile collaborazione con lo scenografo Rolf Borzik. Tra
il 1975 e il ’76 firma “Orpheus und Eurydike” (ancora su un’opera
dell’amato Gluck), “Frühlingsopfer” (la sua celebratissima versione de
“Le Sacre du Printemps” di Stravinskij) e “Die sieben Todsünden” (“I
sette peccati capitali”, ispirato a Brecht-Weill).
Nel 1977 nasce “Blaubart”, pezzo ispirato all’opera “Il castello del
principe Barbablù” di Béla Bartòk, e dello stesso anno sono “Komm tanz
mit mir” e “Renate wandert aus”. L’anno successivo debuttano un’opera
ispirata al “Macbeth” (in coproduzione con la Schauspielhaus di
Bochum),“Café Müller” e “Kontakthof”. Del ’79 sono “Arien” e
“Keuschheitslegende”. Nell’80 muore Rolf Borzik, e allo stesso anno
risale la creazione di “1980-Ein Stück von Pina Bausch” e di
“Bandoneon”. Inizia la collaborazione con lo scenografo Peter Pabst.
Nell’81 nasce Rolf Salomon, figlio di Pina Bausch e Ronald Kay, e
nell’anno successivo la coreografa firma due nuovi pezzi, “Walzer” e
“Nelken”, e partecipa in veste di attrice al film “E la nave va” di
Fellini. Nominata direttrice artistica del Folkwang-Tanzstudio di
Essen nell’83, resta fino all’89 a capo del Dipartimento Danza della
Folkwang-Hochschule di Essen. Le opere successive sono “Auf dem Gebirge
hat man ein Geschrei gehört” (1984), “Two cigarettes in the dark”
(1985), “Viktor” (1986, in coproduzione con il Teatro di Roma), “Ahnen”
(1987) e “Palermo Palermo” (1989, in coproduzione con il Teatro Biondo
di Palermo). Risale al ‘90 il film “Il lamento dell’imperatrice”,
diretto da Pina Bausch. Segue un periodo fitto di collaborazioni
con i massimi festival e teatri del mondo. Crea per Madrid “Tanzabend
II” (1991), debutta nel ‘93 “Das Stück mit dem Schiff” e nel ’94 va in
scena una coproduzione con il Vienna Festival: “Ein Trauerspiel”. Gli
spettacoli successivi sono “Danzòn” (1995), “Nur Du” (’96, coprodotto
con quattro università statunitensi), “Der Fensterputzer” (’97, in
coproduzione con il Festival delle Arti di Hong Kong), “Masurca Fogo”
(’98, montato per l’Expo di Lisbona). Firma la regia de “Il castello del
principe Barbablù” di Bartòk per il festival di Aix-en-Provence con la
direzione di Pierre Boulez (1998). Nel ’99 crea “O Dido”, in
coproduzione con il Teatro di Roma, e nel 2000 dedica a Budapest lo
spettacolo “Wiesendland”. Seguono “Agua” (2001, in coproduzione col
Brasile), “Für die Kinder von Gestern, Heute und Morgen” (2002), “Nefés”
(2003, in coproduzione con il festival di Istanbul), “Ten Chi” (2004,
creato per il Giappone) e “Rough Cut” (2005, dedicato alla Corea).
L’ultima creazione di Pina Bausch (Wuppertal, 2006) è “Vollmond” (“Luna
piena”). Numerosi sono i riconoscimenti ricevuti da Pina Bausch
nel corso della sua carriera. E’ Commendatore dell’Ordine delle Arti e
delle Lettere della Repubblica francese, ha ricevuto la Gran Croce con
Stelle e Fascia dell’Ordine al Merito della Repubblica tedesca e la Cruz
do Ordem Militar de Santiago de Espada in Portogallo. Molti i premi
della critica specializzata, anche in Italia, dove ha ricevuto tra
l’altro il Premio Europa per il Teatro, a Taormina nel maggio del ‘99.
Nel novembre dello stesso anno l’Università degli Studi di Bologna le ha
conferito la laurea honoris causa in Disciplina delle Arti, della
Musica e dello Spettacolo.
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PINA BAUSCH “Dance dance, otherwise we are lost” |
Una volta, in Grecia, sono andata a visitare alcune famiglie di
zingari. Ci siamo seduti insieme e abbiamo parlato; ad un certo punto
tutti hanno cominciato a ballare ed io dovevo partecipare. Avevo una
gran paura e la sensazione di non essere in grado. Allora è venuta da me
una ragazzina, forse sui dodici anni, e mi ha pregato ripetutamente di
danzare assieme a loro. Diceva: “Dance dance otherwise we are lost”. Balla, balla, altrimenti siamo perduti.
Ancora un’altra bella storia. Un uomo anziano a Wuppertal mi ha
raccontato di sua madre centenaria, al suo paese in Turchia, che gli ha
sempre detto: “Nicht weinen, singen”. Non piangere, canta.
Danzare deve avere un fondamento diverso dalla pura tecnica e dalla
routine. La tecnica è importante, ma è solo un presupposto. Certe cose
si possono dire con le parole, altre con i movimenti. Ma ci sono anche
dei momenti in cui si rimane senza parole, completamente perduti e
disorientati, non si sa più che fare. A questo punto comincia la danza, e
per motivi del tutto diversi dalla vanità. Non per dimostrare che i
danzatori sanno fare qualcosa che uno spettatore non sa fare. Si deve
trovare un linguaggio –con parole, con immagini, movimenti, atmosfere –
che faccia intuire qualcosa che esiste in noi da sempre. E’ una
conoscenza molto precisa. I nostri sentimenti, quelli di tutti noi, sono
molto precisi. E’ però un processo molto, molto difficile da rendere
visibile. Io so bene che si tratta di qualcosa con cui si deve essere
molto cauti. Se si traduce troppo in fretta in parole, può scomparire o
diventare banale. Ma ciò nonostante si tratta di una conoscenza molto
precisa, che possediamo tutti, e la danza, la musica ecc. sono linguaggi
molto esatti, con cui è possibile far intuire questa conoscenza. Non si
tratta di arte, e neanche di una semplice capacità. Si tratta della
vita, e dunque di trovare un linguaggio per la vita. E si tratta sempre,
lo ripeto, di qualcosa che non è ancora arte, ma che forse potrebbe
diventarlo. Fin dall’infanzia la danza è
stata per me un mezzo di espressione molto importante. Con la danza
potevo esprimere tutte quelle emozioni che non sapevo dire a parole.
Sono talmente tanti i differenti stati d’animo, tante le sfumature e le
tonalità che si possono esprimere attraverso la danza. Ed è questo ciò
che conta: si deve conservare la ricchezza, non limitarla, si devono
rendere visibili e percepibili tutte le diverse sfumature.
Più tardi, durante la mia formazione alla Folkwangschule di Essen, ho
imparato anche a conoscere i miei limiti. Con ciò non intendo i limiti
dell’anima, che è illimitata, ma i limiti della forma, del proprio
corpo. La caratteristica meravigliosa e singolare della Folkwangschule
era che sotto lo stesso tetto venivano insegnate sia le arti sceniche
sia le arti figurative. Quindi la musica, l’opera, il teatro, la danza
accanto alla pittura, la scultura, la fotografia, la grafica, il disegno
tessile ecc. Era più che ovvio che tutto si alimentasse reciprocamente,
che si ricevesse e si imparasse un po’ di tutto. Da allora, per
esempio, non sono più in grado di vedere niente senza metterlo in
relazione con lo spazio. Questo modo di vedere spaziale è una componente
importantissima del mio lavoro. Al di là
della qualità straordinaria di insegnanti come Hans Züllig o Jean
Cebron, la formazione, grazie alla concezione visionaria e alla
direzione di Kurt Jooss, era unica per pluralità e complessità. La
formazione dei danzatori includeva la danza classica, stili diversi di
danza contemporanea, parti del folclore europeo, composizione ecc.
Più tardi, a New York, al termine della mia formazione, ho di nuovo
incontrato questa molteplicità, una molteplicità nella vita. Vivere da
sola e lavorare in una città di quel genere, dove ci sono tante persone
diverse con mentalità differenti – ha provocato in me un’impressione
molto profonda ed importante. Si impara che nulla può essere separato.
Che tutto coesiste contemporaneamente e che tutto è importante e vale
allo stesso modo. Che si deve avere un grande rispetto per tutti i
diversi modi di vivere e di vedere la vita.
Anche questo è un aspetto importante del nostro lavoro. Come compagnia,
siamo un gruppo misto e variegato di persone: i danzatori vengono da
ogni parte del mondo, da culture molto diverse tra loro. Ormai è
diventata un grande reticolo, una gigantesca famiglia, con collegamenti
dovunque, in tutte le culture. Il nostro lavoro non è vincolato da alcun
confine, ma li attraversa tutti. E’ come le nuvole, come il sole, come
la musica. Se io fossi un uccello, sarei forse un uccello tedesco?
Allora, dopo il mio periodo a New York, quando ritornai in Germania, in
realtà volevo danzare. Siccome però non c’erano praticamente
coreografie, ho cominciato a crearle io. Questo avvenne anche in
seguito, quando l’intendente Arno Wüstenhöfer mi portò a Wuppertal. In
principio volevo danzare io. Ma c’erano tutti i vari danzatori che
desideravano ballare e per farli felici ho creato pezzi per loro e ho
messo da parte il mio personale desiderio di danzare. All’inizio abbiamo
lavorato con opere musicali che offrono già una certa indicazione. Ho
scelto solamente quei lavori che mi lasciavano una qualche libertà di
inserirvi qualcosa di mio. Ad esempio Gluck mi ha lasciato, con Ifigenia e con Orfeo ed Euridice,
moltissimo spazio per intervenire nell’opera facendovi confluire
qualcosa di assolutamente personale, che sentivo di dover esprimere. In
queste opere ho trovato esattamente quello di cui dovevo parlare. Da ciò
è nata poi una nuova forma: l’opera danzata. In un’altra direzione ho
poi cercato contenuti particolari e altre forme. Ne è stato un primo
esempio il lavoro che poi si è chiamato Fritz. Più tardi, quando abbiamo creato Macbeth per
il teatro di Bochum, è nato il modo di lavorare attraverso le domande.
Semplicemente perché in quel pezzo c’erano degli attori, dei danzatori,
una cantante e un pasticciere. Non potevo pretendere dagli attori una
sequenza di movimenti, per cui dovevo cominciare da un altro punto di
partenza. Quindi ho posto a loro le stesse domande che rivolgevo a me
stessa. Le domande servono per avvicinarsi in modo molto cauto alla
tematica. E’ un procedimento di lavoro molto aperto e nello stesso tempo
però anche molto preciso. Perché io so sempre esattamente ciò che
cerco, ma lo so con la mia sensibilità, non con la testa. Perciò non si
può mai domandare in modo troppo diretto. Sarebbe troppo grossolano e le
risposte sarebbero troppo banali. Io so cosa cerco ma non posso
spiegarlo. Ciò che cerco non va disturbato con le parole ma va portato
alla luce con tanta pazienza. Le cose più belle sono nella maggior parte
dei casi completamente nascoste. Vanno prese, curate e fatte crescere
pian piano. Per procedere in questo modo ci vuole una grande fiducia
reciproca. Perché ci sono sempre da superare delle soglie d’imbarazzo.
Per questa ragione a me piace lavorare con danzatori che hanno una certa
timidezza, un certo pudore, che non si svelano facilmente. E’ molto
importante che esista questo pudore, questa esitazione, quando si arriva
ad un certo limite nel lavoro. Chi semplicemente si esibisce, è fuori
posto. Il pudore garantisce che se, per esempio, qualcuno mostra
qualcosa di molto piccolo, questo sia davvero qualcosa di speciale e che
venga visto anche come tale. Proprio qui sta la difficoltà: indurre
qualcuno, per così dire, a trovarlo. Permettetemi di dire qualche cosa sulle persone straordinarie con le
quali lavoro. Io non assumo infatti in primo luogo il danzatore, a me
interessa soprattutto la sua personalità, ciò che di irripetibile e di
singolare c’è in lui. Negli spettacoli ognuno è totalmente se stesso:
nessuno deve recitare. Durante il lavoro, cerco di condurre ciascuno a
trovare da sé quel che cerco. Solo allora egli risulta convincente,
perché è autentico. Solo in questo modo posso essere certa che ognuno
abbia cura di ciò che ha trovato e sia in grado di mostrarlo.
Ogni dettaglio è importante, qualsiasi cambiamento, perché ogni
spostamento causa un effetto diverso. Tutto ciò che troviamo durante le
prove viene accuratamente esaminato e messo alla prova, per capire se
resiste anche nelle condizioni più difficili. Non accetto nulla a cui io
non possa credere, che non mi convinca. Dopo tante domande, alla fine
rimangono solo pochissime cose che poi vanno a costituire uno
spettacolo. Tutto viene continuamente rivoltato e ripensato. Ogni
dettaglio subisce una grande quantità di mutamenti, finché alla fine
trova il posto giusto. Occorre ogni volta molto tempo prima che qualcosa
cominci a scorrere. Se non si presta attenzione anche alla più minuta
piccolezza, il lavoro va in una direzione sbagliata ed è molto
difficile correggerlo. Perciò ci vuole una enorme precisione ed onestà
in questo lavoro e tanto coraggio. Mostriamo qualcosa di personale, che
però non è privato. Si mostra qualcosa di ciò che tutti condividiamo.
Per trovarlo è richiesta molta pazienza e la disponibilità a
ricominciare a cercare ogni volta da capo. Vorrei provare a chiarire un fraintendimento che sorge spesso. Anche se
si dice che il Tanztheater è una forma completamente nuova, io non ho
mai avuto l’intenzione di creare uno stile specifico o un nuovo teatro.
La forma è nata da sé, dalle domande che io mi ponevo. Nel mio lavoro ho
sempre cercato qualcosa che ancora non conosco. E’ una ricerca continua
e persino dolorosa, una lotta. Ricercando non c’è nulla su cui ci possa
basare: nessuna tradizione, nessuna routine. Non esiste nulla a cui ci
si possa aggrappare. Si sta completamente soli di fronte alla vita e
alle esperienze che si fanno e si deve cercare di rendere visibile o
almeno intuibile ciò che si sa da sempre. Questo è quanto ogni artista
ricomincia a fare in ogni periodo storico. E non è nemmeno d’aiuto
l’aver già fatto tanti spettacoli. Con ogni spettacolo questa ricerca
ricomincia da capo e ogni volta ho paura di non poterci riuscire. I modi
nel Tanztheater derivano da una precisa necessità e anche da un
bisogno: trovare un linguaggio per ciò che non può essere espresso in
altra maniera. La stessa cosa vale per la
scenografia. Terra, acqua, foglie o sassi in scena creano una esperienza
sensoriale del tutto particolare. Modificano i movimenti, disegnano
tracce dei movimenti, producono determinati odori. La terra si attacca
alla pelle, l’acqua penetra nei vestiti, li rende pesanti e produce dei
rumori. I mattoni di un muro abbattuto rendono il camminare difficile e
insicuro. Se si porta all’interno di un teatro qualcosa che normalmente
sta al di fuori, ci si apre lo sguardo. Improvvisamente si vedono cose
che si credeva di conoscere in modo del tutto nuovo – come se fosse la
prima volta. I molti materiali che usiamo sono cose naturali, che
normalmente non hanno a che fare con quel luogo. Esse ci irritano e ci
invitano a guardare in un modo completamente diverso. Impegnano i nostri
sensi e ci portano a non pensare più e a cominciare invece a percepire,
a sentire. I danzatori non indossano
calzamaglie o costumi stilizzati. Gli abiti sono in parte vestiti
normali e in parte vestiti lussuosi e bellissimi. Naturalmente anche
eleganti, estremamente eleganti, ma l’eleganza viene anche spezzata.
Figure strane, a volte grottesche, che non si riesca ad inquadrare
direttamente. I colori per me sono importanti, estremamente importanti.
Da un lato non ci si differenzia dalla vita normale, dall’altro però si
mostra la grande ricchezza di forme e colori che da sempre è
esistita. La stessa cosa vale per le
musiche di vari paesi e diversi periodi. Le musiche mostrano con quanta
precisione e in quanti modi diversi si possono esprimere i sentimenti.
E’ una tale ricchezza, che non si può mai finire di cercare e imparare.
Solo che anche qui si tratta di un difficile e lungo processo per
compiere la scelta definitiva e collegare la musica con quanto avviene
in scena. Non posso dire da dove traggo la certezza che funzioni. Ma tra
i moltissimi pezzi musicali che ascolto per ogni produzione, ce n’è
soltanto uno per ogni scena che davvero sia adatto. Animali e fiori, tutte le cose che usiamo in scena, appartengono alla
nostra vita quotidiana. Ci sono ad esempio dei coccodrilli o c’è una
storia d’amore bella e triste con un ippopotamo. Con tutto questo si
possono raccontare delle storie, là dove non si riesce con le parole. E
nello stesso tempo si può mostrare qualcosa della solitudine, della
necessità, della tenerezza. Per questo non occorrono spiegazioni o
allusioni. Tutto è direttamente visibile. Ogni spettatore lo può vedere
con il proprio corpo e con il cuore. Questa è la cosa meravigliosa della
danza: il corpo è una realtà senza la quale niente è possibile, ma
oltre la quale si deve anche saper andare. Esso ci dà qualcosa di molto
concreto, che si può toccare e sentire e che ci commuove. Gli spettatori
fanno sempre parte della rappresentazione quanto ne faccio parte io
stessa, anche se non sono presente in scena. Ognuno è invitato a fidarsi
dei propri sentimenti. Nei nostri programmi di sala non si trovano mai
delle indicazioni rispetto al modo in cui sono da intendere gli
spettacoli. Dobbiamo fare le nostre esperienze, come nella vita. Non ci
può aiutare nessuno. La fantastica
possibilità che abbiamo in scena è che ci è permesso fare azioni che
nella vita normale non si possono e non si devono fare. Con questo cerco
di capire da dove vengono certe emozioni. Le contraddizioni sono
importanti. Tutto deve essere osservato, non si può escludere nulla.
Solo così possiamo intuire in che tempo viviamo. La realtà è molto più
vasta di quanto siamo in grado di comprendere. Talvolta possiamo
chiarire qualcosa soltanto confrontandoci con ciò che non sappiamo. E
talvolta le domande che poniamo ci conducono ad esperienze che sono
molto più antiche, che non appartengono soltanto alla nostra cultura e
al qui ed ora. E’ come se ritornasse a noi una conoscenza che da sempre
ci appartiene, ma della quale non siamo più consapevoli e contemporanei.
Ci fa ricordare qualcosa che è comune a tutti noi. Questo ci dà grande
forza e speranza. Le domande non cessano mai e
nemmeno la ricerca. C’è in essa qualcosa di infinito, e questa è la
cosa bella. Se guardo al nostro lavoro, ho la sensazione di aver appena
cominciato.
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COMUNICATO STAMPA |
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La coreografa tedesca Pina Bausch, leggendaria capofila del teatrodanza europeo, sarà insignita della Direzione Onoraria
dell’Accademia Nazionale di Danza, la più prestigiosa istituzione
pubblica per l’insegnamento della danza in Italia. Il
riconoscimento,proposto da Margherita Parrilla e approvato dagli organi statutari, le sarà conferito ufficialmente dal Ministro dell’Università e Ricerca Fabio Mussi
in una cerimonia che si svolgerà a Roma il 28 ottobre alle ore 20,
presso la sede dell’Accademia di Danza all’Aventino, nella suggestiva
cornice del Teatro Ruskaja, ricavato all’interno della Cisterna
Dioclezianea. Durante la serata sarà consegnato alla grande coreografa
tedesca un omaggio dello scultore-orafo Fausto Maria Franchi appositamente realizzato per l’occasione. Oltre al Ministro Mussi, parteciperanno alla cerimonia Nando Dalla Chiesa,
sottosegretario del Ministero dell’Università e Ricerca, e numerosi
esponenti del mondo dell’arte, del teatro e della danza, alcuni dei
quali tributeranno un loro personale omaggio a Pina Bausch attraverso
brevi interventi e testimonianze. Parleranno tra gli altri i registi Mario Martone, l’attrice Piera Degli Esposti e il coreografo Micha Van Hoecke,il sovrintendente del comunale di Firenze Francesco Giambrone. La serata sarà aperta da un breve omaggio in forma di danza da parte dell’Accademia, affidato a una coreografia di Adriana Borriello, che sarà interpretata in scena dai due neo laureati dell’Accademia Petra Conti e Ilia Kun.
L’importante riconoscimento giunge a sancire il profondo rapporto che
lega Pina Bausch all’Italia, e in particolare a Roma, città in cui ha
presentato con clamoroso successo i suoi spettacoli fin dagli anni
Ottanta, e alla quale ha dedicato due delle sue produzioni, “Viktor” e
“O Dido”. Fondatrice del Tanztheater Wuppertal, formidabile compagnia
internazionale di danzatori-attori, Pina Bausch ha ispirato cineasti
come Federico Fellini e Pedro Almodovar. La sua straordinaria
personalità di autrice interdisciplinare ha segnato radicalmente gli
sviluppi delle avanguardie sceniche degli ultimi decenni del Novecento.
Domenica 29, alle ore 11, nella sede dell’Accademia, la coreografa
incontrerà gli allievi dell’istituzione in un incontro pubblico e aperto
a tutti, durante il quale sarà affiancata dalla danzatrice italiana Cristiana Morganti, interprete di spicco della compagnia del Tanztheater Wuppertal.
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