Teatro La Fenice di Venezia
PRESENTAZIONE
Fondato nel 1792, il Teatro La Fenice è stato nell’Ottocento sede di numerose prime assolute di opere di Rossini (Tancredi, Sigismondo, Semiramide), Bellini (I Capuleti e i Montecchi, Beatrice di Tenda), Donizetti (Belisario, Pia de’ Tolomei, Maria de Rudenz), Verdi (Ernani, Attila, Rigoletto, La traviata, Simon Boccanegra). Anche nell’ultimo secolo grande è stata l’attenzione alla produzione contemporanea, con prime mondiali quali The Rake’s Progress di Stravinskij, The Turn of the Screw di Britten, L’angelo di fuoco di Prokofiev, Intolleranza di Nono, Hyperion di Maderna e recentemente Entführung im Konzertsaal di Kagel, Medea di Guarnieri, Signor Goldoni di Mosca, Il killer di parole di Ambrosini. Con una capienza di mille posti, un’ottima acustica (ulteriormente migliorata dopo la recente ricostruzione seguita al devastante incendio del 1996), un’orchestra e un coro stabili di 98 e 66 elementi, un ampio pubblico internazionale che si aggiunge all’assiduo pubblico locale, la Fenice si pone tuttora come centro produttivo di primaria importanza, con più di cento recite d’opera all’anno, un’importante stagione sinfonica affidata a direttori di calibro internazionale (ricordiamo le frequenti collaborazioni con Myung-Whun Chung, Riccardo Chailly, Jeffrey Tate, Vladimir Temirkanov, Dmitrij Kitajenko, i cicli integrali delle sinfonie di Beethoven, Schumann, Brahms, Mahler e l’attenzione al repertorio contemporaneo, in particolare veneziano, con Nono e Maderna), spettacoli di balletto e concerti di musica da camera. La sala, di proprietà del Comune di Venezia, è gestita dalla Fondazione Teatro La Fenice, un ente di diritto privato che conta tra i suoi soci lo Stato italiano, la Regione del Veneto, il Comune di Venezia e numerosi soggetti pubblici e privati, che utilizza per le sue attività anche il Teatro Malibran, ex Teatro di San Giovanni Grisostomo, attivo dal 1678. Sovrintendente della Fondazione è attualmente Cristiano Chiarot, direttore artistico Fortunato Ortombina, direttore musicale principale Diego Matheuz, maestro del coro Claudio Marino Moretti.Fedele alla storia del teatro, la Fondazione Teatro La Fenice persegue una politica di consolidamento del grande repertorio operistico, italiano ma anche francese, inglese, tedesco (i legami di Venezia con Britten e Wagner hanno radici profonde) e slavo, affrontato con alti standard musicali e con attenzione alla migliore sperimentazione registica recente, politica accompagnata dalla continuità nella ricerca sulla contemporaneità (con nuove commissioni e allestimenti in prima italiana o in prima veneziana), e da un interesse specifico per il repertorio barocco, veneziano in particolare, proposto in collaborazione con gruppi specializzati italiani e stranieri. Di particolare rilievo nelle ultime stagioni si sta inoltre rivelando l’attività della Fondazione legata a un’altra delle sue finalità statutarie, la formazione di nuovi quadri artistici e la promozione dei giovani talenti emergenti. Oltre ad affidare alcune produzioni di punta a giovani professionisti emergenti (direttori, registi, scenografi, cantanti), a commissionare brani sinfonici e produzioni operistiche da camera a giovani compositori, e ad aver nominato suo direttore principale il ventisettenne Diego Matheuz, la Fenice collabora con le principali istituzioni di formazione veneziane (Conservatorio, Università, Accademia di Belle Arti) all’allestimento di spettacoli che coinvolgono gli studenti nella loro produzione e progettazione, in particolare all’interno del recentemente fondato Atelier della Fenice al Teatro Malibran.(in alto a sinistra, un’immagine del Teatro nel 1837; qui sopra, uno scatto della Sala Grande così come appare oggi - foto Michele Crosera)
LA STORIA
1789 - Un teatro all’italiana
" La Nobile Società del nuovo Teatro da
erigersi in Venezia sopra il fondo acquistato nelle contrade di
S.Angelo e di S.Maria Zobenigo ha incaricati i suoi pressidenti ed
aggiunti di procurarsi disegni e modelli ..." invitando " a concorrenza
tanto gli architetti nazionali che forestieri a proporre la forma di un
teatro ... il più soddisfacente all’occhio ed all’orecchio degli
spettatori..."Così recita il bando di concorso per
l’erigendo Teatro La Fenice, pubblicato il 1 novembre 1789, una volta
superati i limiti di una legge suntuaria che fissava a sette il numero
dei Teatri funzionanti nella Dominante. Nei quattordici articoli di cui
era composto, il documento stabiliva che la futura costruzione avrebbe
dovuto prevedere cinque ordini di palchetti " che si denominano pepiano
", con non meno di 35 palchetti per ciascun ordine. Una chiara scelta di
campo a favore delle " piccole logge secondo il costume d’Italia ",
tesa a raggiungere un risultato che avrebbe dovuto offrire una giusta
mediazione tra le due caratteristiche generalmente richieste ad una sala
teatrale, e cioé tra l’eccellenza della visibilità e la meraviglia
dell’acustica.Soluzione teatrale in linea con la tradizione
italiana, si diceva, dal momento che altre erano le scelte che in fatto
di costruzione di teatri nel corso del XVIII secolo si operavano per
esempio in Francia, dove veniva preferito il sistema dei palchi aperti
in gallerie a corona di una platea semicircolare o leggermente
allungata. Scelta tipicamente " nostrana ", tanto più che essa veniva a
ricreare nello spazio teatrale la tipologia della piazza italiana quale
anfiteatro naturale che consente di vivere nel contempo in casa ed in
piazza, offrendo, inoltre, allo spettatore la visione ravvicinata,
tipica dei teatri anatomici. E di certo, in qualche misura, decisione
anche svantaggiosa quella dei palchi chiusi, ma giustificata
dall’impossibilità del pubblico di allora di rinunciare agli infiniti
comodi offerti dalle logge separate, che consentivano di vivere ogni
palco come la propria casa, in cui stare soli o in compagnia, mangiare o
giocare, consentendo i palchi chiusi di riperpetuare, in una porzione
di spazio teatrale privatizzato, quella trama di relazioni e di
comportamenti tipici della società dell’epoca.
1789 - I servizi per il pubblico
Dato poi che a quel tempo la via
d’accesso privilegiata lungo la quale il pubblico si recava a teatro
era quella acquea, il bando raccomandava ai progettisti di pensare un
ingresso dal Rio Menuo di almeno venti piedi, misurandone la gondola,
mezzo di trasporto per eccellenza, trentadue.
E visto l’estremo rischio di incendio che tutti i teatri dell’epoca (e non solo!) correvano, per via dei materiali in gran parte lignei delle costruzioni e per la pericolosità del sistema di illuminazione, la Nobile Società richiedeva "dagli architetti un particolare studio ", promettendo, in cambio, di riconoscere merito a quel progetto che, pur in presenza di elementi costruttivi necessariamente " di materia accendibile come il legno ", avesse reso meno esposta alle fiamme la costruzione, grazie a " pronti e facili ripari ".Una certa attenzione era anche rivolta alle necessità di coloro che, a vario titolo, nel nuovo teatro sarebbero convenuti, raccomandando quindi agli architetti di pensare e migliorare le strutture destinate all’uso di chi gravitava intorno alla scena per ragioni di lavoro, e provvedendo ad aumentare l’agio e la tranquillità degli spettatori agevolando le vie d’accesso e, perché no, la sosta in luoghi adatti " al caffè ed alla vendita di altri generi anche commestibili. "
I progetti, concludeva il bando, avrebbero dovuto essere presentati entro quattro mesi, aumentati successivamente a sei, ed all’architetto prescelto sarebbe stato dato in dono " un medaglione d’oro del peso di trecento zecchini " oltre al pagamento di una " giusta mercede " per sovrintendere ai lavori di costruzione di " un decoroso teatro che finalmente corrisponda ad una capitale ove Palladio, Sansovino, Sammicheli, Scamozzi ed altri valentuomeni del Bel Secolo hanno lasciati così insigni monumenti.. ".
E visto l’estremo rischio di incendio che tutti i teatri dell’epoca (e non solo!) correvano, per via dei materiali in gran parte lignei delle costruzioni e per la pericolosità del sistema di illuminazione, la Nobile Società richiedeva "dagli architetti un particolare studio ", promettendo, in cambio, di riconoscere merito a quel progetto che, pur in presenza di elementi costruttivi necessariamente " di materia accendibile come il legno ", avesse reso meno esposta alle fiamme la costruzione, grazie a " pronti e facili ripari ".Una certa attenzione era anche rivolta alle necessità di coloro che, a vario titolo, nel nuovo teatro sarebbero convenuti, raccomandando quindi agli architetti di pensare e migliorare le strutture destinate all’uso di chi gravitava intorno alla scena per ragioni di lavoro, e provvedendo ad aumentare l’agio e la tranquillità degli spettatori agevolando le vie d’accesso e, perché no, la sosta in luoghi adatti " al caffè ed alla vendita di altri generi anche commestibili. "
I progetti, concludeva il bando, avrebbero dovuto essere presentati entro quattro mesi, aumentati successivamente a sei, ed all’architetto prescelto sarebbe stato dato in dono " un medaglione d’oro del peso di trecento zecchini " oltre al pagamento di una " giusta mercede " per sovrintendere ai lavori di costruzione di " un decoroso teatro che finalmente corrisponda ad una capitale ove Palladio, Sansovino, Sammicheli, Scamozzi ed altri valentuomeni del Bel Secolo hanno lasciati così insigni monumenti.. ".
1789 - I concorrenti
Allo spirare dei termini del
concorso che aveva suscitato un’accesa polemica facendo scendere in
campo schieramenti opposti, grazie anche alla pubblicazione di opuscoli
illustrativi a sostegno dei propri progetti promossa da alcuni
concorrenti, gli studi presentati furono in totale ventotto. Tra la
folla di eruditi, architetti e matematici che si vollero mettere alla
prova, nove presentarono progetti con disegni e modellini in legno.
Merita menzione, tra i ventotto concorrenti, il nome dell’architetto
teatrale Pietro Checchia, forte della sua pratica di ricostruzione e di
rifacimento di teatri veneziani.
Il Checchia aveva infatti ricostruito nel 1774 il teatro di San Beneto dopo la sua distruzione dovuta all’incendio, un teatro che a Venezia veniva considerato come il migliore della città. Il progetto presentato dal Checchia per San Fantin non era privo di qualità per quanto riguarda l’aspetto della " macchina ". Il motivo per cui venne reputato debole, oltre a qualche errore, fu la mancanza di un " tono " nella progettazione, in modo tale che il progetto fu giudicato non corrispondente alla volontà dei committenti di dare vita ad un esempio di architettura civile che imponesse la sua immagine alla città.Da ricordare, inoltre, il giovane architetto Sante Baseggio che, pur sostenuto ampiamente dai suoi concittadini, dovette attendere il 1817 per veder realizzato un suo progetto con il teatro Sociale di Rovigo; ma anche l’anziano abate Antonio Marchetti, architetto dioceano, che in Brescia aveva progettato il Ridotto come sala concepita a palchetti. Rappresentava invece la scuola padovana di architettura, Daniele Danieletti che rovesciò completamente l’ingresso che il bando voleva su campo San Fantin, per proporlo verso il Rio Menuo. Ciò facendo Danieletti, collaboratore dell’abate Domenico Cerato, rifiutando il doppio ingresso via acqua e via terra e, operando una scelta egualitaria, decideva per un’unica porta di entrata. Un rifiuto sostanziale di quello che il nuovo edificio doveva rappresentare negli intenti dei committenti, e cioè l’equilibrio tra l’ingresso aristocratico via acqua e l’ingresso democratico e repubblicano via terra. Altro progetto degno di nota fu quello presentato da Giuseppe Pistocchi, autore di un teatrino di grande qualità a Faenza (1780-88), giudicato negativamente dalla commissione a causa della platea a gradoni che portava gli spettatori a livello del palco pepiano e per l’orditura di sei colonne giganti che sottolineavano in cinque intervalli la curva dei palchi, da lui battezzata " curva sferoide ". Per quanto riguarda il problema della decorazione, Pistocchi riproponeva la tipologia decorativa già scelta per Faenza, di modo che il nuovo teatro avrebbe dovuto essere adornato " di convenienti decorosi caratteri ". Nel suo progetto, i parapetti delle logge avrebbero dovuto essere costituiti da " griglie intessute di vegetali ramificazioni, intralciate di erbe, e fiori disposti con elegante e artifiziosa maestria ", con dovizia di dorature e drappi cerulei; mentre sopra il colonnato avrebbero dovuto far bella mostra dodici statue raffiguranti i mesi dell’anno. Il tutto coperto da un soffitto che l’architetto immaginava come " un gran velario, espresso con maestria pittorica, ringolfato nel mezzo da tre figure rappresentanti le Grazie. " Tuttavia, il vero sconfitto nel concorso deve considerarsi a tutti gli effetti l’architetto ufficiale della Roma papalina Cosimo Morelli che tra l’altro aveva già al suo attivo i teatri di Forlì, Jesi, Imola, Ferrara e Macerata. Il suo progetto entrò nel gruppo dei quattro presi in maggior considerazione dalla commissione esaminatrice, nonostante possa essere giudicato il più antiveneziano di tutti perchè non utilizza in forma progettuale l’elemento acqueo, inserito nella struttura come un inutile canale. Pubblicando un " Promemoria che accompagna il disegno ed il modello del Teatro ideato dal Cavalier Morelli ed umiliato alla Nobile Società Veneta ", egli non dimenticava di accennare al problema della decorazione, suggerendo che " la gran sala si dovrà dipingere da un valente ornatista. La soffitta della Platea potrebbe ornarsi col dipinto alla foggia di quello, che si è abbozzato nel modello, - da lui presentato alla giuria - e tutti i palchetti uniformemente disegnati, e da dilicate tinte istoriati, scansando tutto ciò, che può ostare alla conveniente riflessione della voce.Del progetto di un altro finalista, il trevigiano Andrea Bon, non si sa molto oltre al giudizio forse troppo severo della commissione che ritenne " ...poco accennata nella pianta dalla parte di San Fantino l’idea dell’autore e niente eseguita sul modello.. " tanto che " ...l’immensa spesa, che si getarebbe nell’esecutione di questa fabrica dove non vi è ne gusto ne ordine, non potrebbe essere mai recuperata dai due palchi di più che egli progetta per ordine ." Il Bon, allievo di Giordano Riccati, dovette intervenire per assicurare la paternità del progetto, che prevedeva una struttura poggiante su colonne con tutto uno spazio sottostante disponibile, ben più ampio di quello previsto nel progetto dell’architetto papalino Morelli. Di sicuro peso la figura dell’architetto Pietro Bianchi, autore già nel 1787 di un progetto di teatro-basilica da far sorgere nell’area dei Giardinetti delle Procuratie Nuove sulla riva del Canal Grande, non fosse altro per la accesa contestazione da lui promossa contro il verdetto della giuria del concorso. Bianchi era figlio del gondoliere del Doge Grimani, per il quale aveva curato il restauro del palazzo in San Polo, e non godeva del favore del mondo accademico e professionale. Sul piano politico, se su qualche amicizia poteva contare, questa non apparteneva di certo alla cerchia di Andrea Memmo, l’animatore della realizzazione della " Piazza più sorprendente d’Europa ", il Prato della Valle a Padova, cioè di colui che fin dall’inizio aveva patrocinato l’idea del nuovo teatro, rimuovendo gli ostacoli alla sua realizzazione. Nel suo progetto Bianchi optò per una figura basilicale, come una sorta di fusione tra un teatro ed una chiesa, mentre per quanto riguarda il problema dei palchi, scelse la forma più collaudata della spirale logaritmica del Teatro alla Scala di Milano. Circa le scelte decorative, nella sua pubblicazione indirizzata " Ai Presidenti della Società del nuovo Teatro da eseguirsi in Venezia", Bianchi pensava ad una sala "ornata d’intorno di maniera Dorica ", in ciò distaccandosi nettamente dalle preferenze estetiche di Andrea Memmo intervenuto con il peso della sua autorità nel dibattito. Facendo propri gli enunciati di Algarotti, Memmo rifiutava " gli ornamenti, che avessero del centinato, e sinuoso ", suggerendo " di dipingere la Sala stessa de’ palchi a leggieri grotteschi sul gusto di quelli di Raffaello ... mentre potrebbesi riservare tutta la magnificenza nelle Scale, negli Atrj, e nell’esterno del Teatro ", bandendo, in altre parole, dall’interno del teatro " ogni sorta d’ornato, che interromper potesse in qualunque modo la voce, e spezialmente li parati di seta, di teleria, di carte ."
Il Checchia aveva infatti ricostruito nel 1774 il teatro di San Beneto dopo la sua distruzione dovuta all’incendio, un teatro che a Venezia veniva considerato come il migliore della città. Il progetto presentato dal Checchia per San Fantin non era privo di qualità per quanto riguarda l’aspetto della " macchina ". Il motivo per cui venne reputato debole, oltre a qualche errore, fu la mancanza di un " tono " nella progettazione, in modo tale che il progetto fu giudicato non corrispondente alla volontà dei committenti di dare vita ad un esempio di architettura civile che imponesse la sua immagine alla città.Da ricordare, inoltre, il giovane architetto Sante Baseggio che, pur sostenuto ampiamente dai suoi concittadini, dovette attendere il 1817 per veder realizzato un suo progetto con il teatro Sociale di Rovigo; ma anche l’anziano abate Antonio Marchetti, architetto dioceano, che in Brescia aveva progettato il Ridotto come sala concepita a palchetti. Rappresentava invece la scuola padovana di architettura, Daniele Danieletti che rovesciò completamente l’ingresso che il bando voleva su campo San Fantin, per proporlo verso il Rio Menuo. Ciò facendo Danieletti, collaboratore dell’abate Domenico Cerato, rifiutando il doppio ingresso via acqua e via terra e, operando una scelta egualitaria, decideva per un’unica porta di entrata. Un rifiuto sostanziale di quello che il nuovo edificio doveva rappresentare negli intenti dei committenti, e cioè l’equilibrio tra l’ingresso aristocratico via acqua e l’ingresso democratico e repubblicano via terra. Altro progetto degno di nota fu quello presentato da Giuseppe Pistocchi, autore di un teatrino di grande qualità a Faenza (1780-88), giudicato negativamente dalla commissione a causa della platea a gradoni che portava gli spettatori a livello del palco pepiano e per l’orditura di sei colonne giganti che sottolineavano in cinque intervalli la curva dei palchi, da lui battezzata " curva sferoide ". Per quanto riguarda il problema della decorazione, Pistocchi riproponeva la tipologia decorativa già scelta per Faenza, di modo che il nuovo teatro avrebbe dovuto essere adornato " di convenienti decorosi caratteri ". Nel suo progetto, i parapetti delle logge avrebbero dovuto essere costituiti da " griglie intessute di vegetali ramificazioni, intralciate di erbe, e fiori disposti con elegante e artifiziosa maestria ", con dovizia di dorature e drappi cerulei; mentre sopra il colonnato avrebbero dovuto far bella mostra dodici statue raffiguranti i mesi dell’anno. Il tutto coperto da un soffitto che l’architetto immaginava come " un gran velario, espresso con maestria pittorica, ringolfato nel mezzo da tre figure rappresentanti le Grazie. " Tuttavia, il vero sconfitto nel concorso deve considerarsi a tutti gli effetti l’architetto ufficiale della Roma papalina Cosimo Morelli che tra l’altro aveva già al suo attivo i teatri di Forlì, Jesi, Imola, Ferrara e Macerata. Il suo progetto entrò nel gruppo dei quattro presi in maggior considerazione dalla commissione esaminatrice, nonostante possa essere giudicato il più antiveneziano di tutti perchè non utilizza in forma progettuale l’elemento acqueo, inserito nella struttura come un inutile canale. Pubblicando un " Promemoria che accompagna il disegno ed il modello del Teatro ideato dal Cavalier Morelli ed umiliato alla Nobile Società Veneta ", egli non dimenticava di accennare al problema della decorazione, suggerendo che " la gran sala si dovrà dipingere da un valente ornatista. La soffitta della Platea potrebbe ornarsi col dipinto alla foggia di quello, che si è abbozzato nel modello, - da lui presentato alla giuria - e tutti i palchetti uniformemente disegnati, e da dilicate tinte istoriati, scansando tutto ciò, che può ostare alla conveniente riflessione della voce.Del progetto di un altro finalista, il trevigiano Andrea Bon, non si sa molto oltre al giudizio forse troppo severo della commissione che ritenne " ...poco accennata nella pianta dalla parte di San Fantino l’idea dell’autore e niente eseguita sul modello.. " tanto che " ...l’immensa spesa, che si getarebbe nell’esecutione di questa fabrica dove non vi è ne gusto ne ordine, non potrebbe essere mai recuperata dai due palchi di più che egli progetta per ordine ." Il Bon, allievo di Giordano Riccati, dovette intervenire per assicurare la paternità del progetto, che prevedeva una struttura poggiante su colonne con tutto uno spazio sottostante disponibile, ben più ampio di quello previsto nel progetto dell’architetto papalino Morelli. Di sicuro peso la figura dell’architetto Pietro Bianchi, autore già nel 1787 di un progetto di teatro-basilica da far sorgere nell’area dei Giardinetti delle Procuratie Nuove sulla riva del Canal Grande, non fosse altro per la accesa contestazione da lui promossa contro il verdetto della giuria del concorso. Bianchi era figlio del gondoliere del Doge Grimani, per il quale aveva curato il restauro del palazzo in San Polo, e non godeva del favore del mondo accademico e professionale. Sul piano politico, se su qualche amicizia poteva contare, questa non apparteneva di certo alla cerchia di Andrea Memmo, l’animatore della realizzazione della " Piazza più sorprendente d’Europa ", il Prato della Valle a Padova, cioè di colui che fin dall’inizio aveva patrocinato l’idea del nuovo teatro, rimuovendo gli ostacoli alla sua realizzazione. Nel suo progetto Bianchi optò per una figura basilicale, come una sorta di fusione tra un teatro ed una chiesa, mentre per quanto riguarda il problema dei palchi, scelse la forma più collaudata della spirale logaritmica del Teatro alla Scala di Milano. Circa le scelte decorative, nella sua pubblicazione indirizzata " Ai Presidenti della Società del nuovo Teatro da eseguirsi in Venezia", Bianchi pensava ad una sala "ornata d’intorno di maniera Dorica ", in ciò distaccandosi nettamente dalle preferenze estetiche di Andrea Memmo intervenuto con il peso della sua autorità nel dibattito. Facendo propri gli enunciati di Algarotti, Memmo rifiutava " gli ornamenti, che avessero del centinato, e sinuoso ", suggerendo " di dipingere la Sala stessa de’ palchi a leggieri grotteschi sul gusto di quelli di Raffaello ... mentre potrebbesi riservare tutta la magnificenza nelle Scale, negli Atrj, e nell’esterno del Teatro ", bandendo, in altre parole, dall’interno del teatro " ogni sorta d’ornato, che interromper potesse in qualunque modo la voce, e spezialmente li parati di seta, di teleria, di carte ."
1789 - Un verdetto controverso
Ad ogni modo la commissione ritenne
che il progetto di Bianchi, pur poggiando sul favore di un vasto
pubblico, non possedesse le regole di statica necessarie, e molti
furono coloro che pensarono che la vittoria del Selva fosse frutto di
una precedente concertazione. Il Selva apparteneva a
quel gruppetto di concorrenti che presentarono anche uno schema di
decorazione nel proprio modello ligneo presentato alla giuria, modello
che è l’unico che a tutt’oggi si sia conservato. Da esso vediamo come
egli prevedesse di inserire un riquadro con " Apollo e le Muse che civilizzano l’umanità " sulla facciata verso il canale, mentre quella verso San Fantin avrebbe dovuto essere ornata con scene di " Apollo e Marsia " e di " Orfeo che ammansisce Cerbero ".
Detti riquadri avrebbero dovuto, secondo il progetto, essere prodotti a
fresco, in quanto, come osservava nella relazione alla giuria, " sarebbe
desiderabile che tal modo di dipingere sol proprio della veneta scuola
ritornasse parcamente anche all’esterno delle fabbriche ." Per
quanto riguarda le decorazioni del soffitto, il modello del Selva opta
per una semplice struttura a intreccio che forma motivi di losanga,
incorniciata da una rigogliosa corona vegetale. Dove l’influsso
esercitato sull’architetto dall’esempio del Teatro Valle di Roma, e
soprattutto dalla Scala di Milano è evidente.
La commissione giudicatrice composta da Simone
Stratico, esperto in architettura navale e civile e docente di fisica
all’università di Padova, dal padre somasco Benedetto Buratti, cui si
riconosceva una buona conoscenza dell’architettura, e dallo scenografo e
pittore Francesco Fontanesi, lo stesso che con Pietro Gonzaga
contribuirà all’allestimento dei Giuochi d’Agrigento il 16 maggio 1792,
si attirò critiche ferocissime da parte dell’opinione pubblica,
aizzata in ciò anche dal partito dei fedelissimi del teatro di San
Beneto, poco disposti a veder con favore la nascita di un potenziale
concorrente. Il montare delle critiche non rallentò comunque i lavori
di costruzione iniziati prontamente sotto la direzione del Selva, ma
spinse la commissione a distinguere l’affidamento dell’incarico dal
premio in denaro promesso, che venne consegnato al Bianchi il quale, in
questo modo, vinceva il concorso ma non realizzava l’opera.
1790 - I lavori e le polemiche
Le demolizioni degli edifici che
sorgevano sull’area destinata ad ospitare la nuova costruzione
iniziarono nell’aprile del 1790 sotto la supervisione di Antonio
Solari, ed i lavori, eseguiti con esemplare rapidità, furono portati a
termine nell’aprile 1792, consentendo che il 16 maggio, festa della
Sensa, il teatro venisse ufficialmente inaugurato con " I Giuochi
d’Agrigento" del conte Alessandro Pepoli.Ma la velocità dei tempi di costruzione non smorzò le polemiche dei
gruppi contrari al nuovo teatro, i quali, anzi, puntarono le loro
critiche sul lievitare oltre ogni dire delle spese rispetto agli
iniziali quattrocentomila ducati preventivati.Polemiche e critiche attestate dal fiorire di sonetti ( Belle
pietre, bei legnami / Bassa orchestra, i Palchi infami / Scale nuove
d’invenzion / Per taverna e per preson / Carta impressa tutta intorno /
Remondini de Bassan / Rode e macchine inventae / Perché tutto vada pian
/ Gran speranza, gente assae / E assai pochi battiman ) e
da motti satirici, e perfino dagli strali che colpirono l’innocente
scritta SOCIETAS che ancora appare sulla facciata dell’edificio, in cui
si voleva leggere Sine Ordine Cum Irregularitate Erexit Theatrum Antonius Selva.Con
la realizzazione della Fenice si può dire venisse a concretizzarsi un
ampio programma di intellettualità illuministica settecentesca che con
l’architettura e le opere pubbliche coltivava il disegno di promuovere
l’idea di riforma.Una cerchia il cui animatore era quell’Andrea
Memmo che tanto aveva sostenuto l’idea del nuovo teatro e che sarebbe
morto procuratore di San Marco nel 1793. Si veniva a concretizzare, in
altre parole, l’ideale di un teatro repubblicano che si proponeva una
uguaglianza effettiva dei palchi e comunicava il suo rigore attraverso
l’austerità dei suoi ornamenti, eseguiti, di certo in accordo con il
Selva, dallo scenografo emiliano Francesco Fontanesi (1751-1795). Fatto
quest’ultimo annunciato dalla "Gazzetta Urbana Veneta" già il 26
novembre 1791, che quel giorno annotava come " cominciano ad
interessare le notizie intorno al magnifico Teatro novissimo, che
rapidamente s’accosta al suo compimento. E’ sollecitato al suo ritorno
in questa Città il celebre Sig. Cav. Fontanesi che deve dipingerlo ."
Un ideale egualitario abbandonato in seguito in ossequio ai nuovi
tempi dallo stesso Selva il quale, per far largo nel 1808 al palco
reale per Napoleone, avrebbe modificato la parte dei palchi centrali
ricorrendo anche a decorazioni di mano di Giuseppe Borsato
1792 - Le cronache del tempo
Comunque, agli occhi degli
spettatori che poterono partecipare alla serata di inaugurazione il 16
maggio 1792, o almeno per il cronista della "Gazzetta Urbana Veneta" la
decorazione della Fenice ". .. ha tutti i requisiti che son
necessarj all’effetto; chiarezza di tinte, armonia, solidità e
leggerezza cose difficili a combinarsi, e che mirabilmente s’uniscono
in questo lavoro ... Il soffitto a volta è d’una curva poco ascendente,
ma che per artifizio della pittura par che sollevisi oltre i suoi
limiti. Nella grande aperturta del mezzo vedesi un cielo con diversi
Genj aventi i simboli allusivi al soggetto. Resta talmente leggiero che
sembra realmente aperto. Lo scomparto e gli ornamenti di questa
pittura son del più puro e fino carattere, e consistono in bassi
rilievi, rosoni, e arabeschi di gusto antico. Li
parapetti de’ palchetti non son divisi in tanti quadretti della
larghezza di ogni palco, come ordinariamente suol farsi, ma formano un
fregio che gira all’intorno di ciascun ordine. Piace moltissimo la
qualità del rabesco, ed il rilievo che mostra. Sembra che non
interamente soddisfi la qualità della tinta; ma siccome il tutto
insieme riesce d’aggradimento comune, così non si potrebbe decidere se
una diversa maniera di questa parte potrebbe egualmente contribuire al
Bello totale che ammirasi. Tutti li 174 palchi componenti questo Teatro
sono simili perfettamente. Una doppia riquadratura di cornici di
rilievo, de’ fondi chiari, con piccoli meandrini ridotti da un esatto
finimento, resi luminosi da una sufficiente vernice che non abbaglia,
adornano il loro interno con eleganza, e chiarezza. La
grand’apertura della Scena formata da un architrave e da due
pilastroni di finissimo intaglio, è come la cornice del quadro, che
divide la scena dal Teatro, tutto è dorato ad oro di zecchino
massiccio, che lega con quello sparso per il resto del Teatro nella
soffitta, ne’ parapetti, e nelle cornici degli interni palchetti." E’ sempre lo stesso giornale a dirci che il nuovo Teatro poteva disporre di due sipari : "Il
primo del Sig. Cav. Fontanesi che s’innalza al cominciare dell’Opera, e
si abbassa al suo fine, rappresenta un Arazzo sul carattere di quelli
di Gobelen. V’ha un gran fregio quadrato all’intorno su cui scherza
vagamente un festone di fiori su fondo d’oro al natural coloriti. Nel
mezzo è rappresentata l’Armonia tirata in cocchio da due cigni. Vedesi
una nuvola che sale sulla quale Venere, Amore, e le tre Grazie. Dietro
al carro appariscono le Arti, e dall’opposta parte diversi Genietti in
atteggiamento di scherzo con simboli adattati al soggetto. Il fondo
presenta un luogo d’amenità. L’altro
che serve all’intervallo degli Atti, è del nostro Sig. Gonzaga d’un
genere affatto diverso ed egualmente bello, e superbo. N’è il disegno
eccellente, e la pittura di mano maestra. Rappresenta una rotonda per
angolo, di cui veggonsi due lati. La cornice corintia è sostenuta da due
giri di colonne fra le quali appariscono le statue de’ più eccellenti
Poeti Greci tragici,e comici. Le figure della più evidente naturalezza
sono di Sacerdoti, di Sacrificatori, di Muse, di Genj, d’Arti; ecc. il
tutto sì ben inteso, sì perfettamente disposto, sì egregiamente
colorito, che non potrebbe fare miglior effetto per l’illusione da cui
nasce l’ammirazione, e il diletto ."
1792 - Le critiche e i consensi
Oltre alla sala, la Fenice del 1792
vedeva la decorazione dell’atrio ad affresco e stucchi, con figure
campite su fondi chiari, definito "bellissimo" da Antonio Diedo. Una
scalinata imponente portava al piano superiore dove erano le sale da
ritrovo, compresa quella da ballo, le cui pareti, scandite da lesene
corinzie, erano impreziosite da grandi specchiere.Gli
architetti che parteciparono al concorso in genere trascurarono il
problema della progettazione della facciata e della sua decorazione.
Solo il Selva dichiarò che " nel nominato Prospetto ho studiato
di evitare la rappresentazione del Tempio, e della Casa, e l’ho
simboleggiato per l’uso che deve avere". Ed in effetti la facciata
presenta una soluzione di grande coerenza, dal momento che tutti gli
elementi decorativi la definiscono inequiocabimente come fronte di
teatro com’era nella sua volontà. Difficile dire a chi possano essere attribuite le decorazioni, anche se sembra si possa parlare di " scuola bolognese ".
Forse l’autore delle due Muse in pietra tenera può essere stato lo
scultore Giovanni Ferrari, dal momento che non mancano analogie con la
serie degli uomini illustri scolpite dal medesimo per il Prato della
Valle a Padova. Di certo opera del giovane tagliapietra Domenico Fadiga,
invece, i rilievi. Anche alla facciata di terra, come già alla sala
teatrale, non vennero risparmiate critiche malevole, mentre unanimemente
apprezzata fu invece l’entrata dal Rio Menuo, con il suo portico a
bugnato e le grandi finestre che portavano luce al palcoscenico.
Questo, per sommi capi, il tanto
atteso nuovo teatro di Giannantonio Selva che, dal punto di vista delle
funzioni, doveva essere uno spazio per la commedia e per l’opera
musicale, destinato ad essere cancellato dall’incendio del 13 dicembre
1836. Dal racconto degli ingegneri Tommaso e Giambattista Meduna si
apprende che verso le tre di quella notte il guardiano venne svegliato " ...
dal denso fumo che aveva invaso la stanza, ed affacciatosi alla
finestra prospettante la scena, vide appreso il fuoco. Sbigottito dalla
paura, più presto cercò di sottrarsi al pericolo, che di fare
osservazioni. Il clamore delle di lui grida fu accresciuto dalle altre
del custode, il quale svegliatosi, vi accorse dall’abitazione contigua. Alle
voci di allarme, dischiuse d’impeto le porte, vi entrarono i pompieri
dal prossimo quartiere pronti a soccorrere.... ma intanto il fuoco,
fatta baldoria, nelle quinte della scena e nelle tele ... e trovata
esca nei riseccati legnami ingargliardiva e si estendeva così
rattamente da non lasciar tempo. La tetra luce, onde venivano in quella
notte rischiarati gli edifizii della città e le isole sorgenti dalla
laguna d’intorno formava un tristissimo quadro. Gli abitatori delle
case prossime atterriti fuggivano, correndo per le vie, e si
ricoveravano in altre che danno sicuro asilo. " Il
fuoco, provocato da una stufa austriaca di recente installazione, durò
tre giorni e tre notti, e focolai incandescenti furono scoperti tra le
ceneri fino al diciottesimo giorno.
1808 - L’arrivo di Napoleone
Pur rimanendo di proprietà della Societas che l’aveva costruita,
durante la dominazione francese la Fenice assunse chiaramente la
funzione di teatro di Stato. Per accogliere come si conveniva Napoleone,
si pensò di addobbare la sala in celeste e argento secondo il nuovo
stile Impero che si stava diffondendo. La visita avvenne il martedì 1
dicembre 1807 ed in onore dell’illustre ospite venne rappresentata la
cantata "Il giudizio di Giove" di Lauro Corniani Algarotti.Seguì, il giovedì successivo, una grande festa da ballo. La sala del
teatro, sfarzosamente addobbata, nella testimonianza del regio
bibliotecario abate Morelli " presentava l’aspetto d’un luogo destinato al ricetto di personaggi della più alta portata ".Al fine di ovviare alla mancanza di un palco reale si costruì una loggia
provvisoria per accogliere l’imperatore, e solo l’anno dopo si pensò di
dare incarico al Selva, che già aveva sovrinteso ai preparativi fatti
per la visita del 1807, di progettare una struttura fissa appositamente
studiata per ospitare il sovrano. Nel contempo si stabilì di procedere
ad una nuova decorazione della sala. Questa trasformazione "napoleonica"
sulla struttura della Fenice era stata preceduta l’anno prima da un
intervento attuato alla Scala di Milano, capitale del Regno Italico. E
da Milano, infatti, giunsero, assieme ai quattrini necessari ai lavori
(150.000 lire italiane), anche le linee direttrici per " la costruzione del palco del Governo nel Teatro della Fenice, occupandovi sei palchetti " e per le nuove decorazioni. l concorso, bandito il 4 giugno 1808 dall’Accademia di Belle Arti,
quattro furono i progetti che vennero esaminati dalla commissione, tra i
cui membri figurava anche il Selva.Questa scelse, già il 28 giugno successivo, i disegni dell’ornatista Giuseppe Borsato presentati con il motto " nec audacia defuit, sed vires ",
il quale, una volta che il progetto venne approvato dal vice re Eugenio
Beauharnais, potè avere il contratto siglato già il 25 settembre.Il progetto di Borsato, di netto stile Impero, prevedeva una struttura a
regolari comparti geometrici attorno ad un Trionfo di Apollo sul
cocchio attorniato dal coro delle Muse. Un soggetto, quindi, chiaramente
conveniente ad un teatro e, nel contempo, una facilmente riconoscibile
allusione al nuovo potente che, nella migliore tradizione barocca,
veniva assimilato al dio solare. Attorniavano la scena centrale dieci
medaglioni con teste laureate e, sul bordo, quattro finti rilievi
allusivi all musica, il tutto incorniciato da un fregio con maschere e
festoni retti da fenici e da genietti.
ollaborarono alla decorazione, che fu portata a termine in tempo da
permettere la regolare riapertura il 26 dicembre 1808, altri pittori
come "figuristi". Dei tre chiamati dal Borsato a collaborare, sembra che
Giambattista Canal abbia lavorato all’affresco maggiore con il cocchio
di Apollo; Costantino Cedini abbia dipinto il nuovo sipario, mentre
Pietro Moro si sarebbe occupato dell’esecuzione dei finti rilievi.
Di netto contenuto ideologico furono, invece, le decorazioni della
loggia imperiale fatte per mano di Giovanni Carlo Bevilacqua che scrisse
di aver dipinto a guisa di bassorilievi sulle tre pareti ed " a tempera Ercole che uccide l’Idra, ed Ercole che coglie i frutti nell’Orto delle Esperidi ", raffigurando " sopra la porta un Genio militare in una Biga tirata da quattro cavalli, coronato dalla Fama, e guidato dal Dio Marte ".Quella loggia che già il Selva il 6 luglio 1808 ebbe modo di precisare che sarebbe stata " nell’interno
armonicamente ripartita con pilastri, quadrature, intagli e quattro
specchiere, il tutto messo ad oro e vernice....Il Baldacchino e lo
Strato ... di veluto foderato di raso con ricchi galloni, frangie, e
fiocchi d’oro ".
1828 - Il restauro
E di certo la
nuova loggia imperiale dovette attirare l’attenzione di tutti i
presenti alla serata inaugurale il 26 dicembre, essendo essa divenuta
il fulcro della sala teatrale, tanto più che la decorazione, secondo
una scelta di coerente gusto neoclassico che consentiva anche un
apprezzabile contenimento di spesa, offriva raffinate variazioni in
monocromo.Comunque si conquistò il sincero favore del Segretario della I.R. Accademia Antonio Diedo che la definì " opera pregevolissima, che accoppia in modo distinto la comodità all’eleganza ",
nonchè gli apprezzamenti di Clemente di Metternich che, omaggiato
nuovo signore, potè assistere la sera del 16 dicembre 1822 ad uno
spettacolo che lui stesso definì " sans pareil " in una loggia che gli apparì " merveilleusement belle "
Tuttavia, ad appena tre anni dalla visita del Metternich si rese
necessario un restauro radicale dato che " le autorità governative -
avevano espresso - ripetutamente il loro malcontento per lo stato
indecoroso nel quale era ridotta la decorazione della sala teatrale sia a
causa del tempo sia per le emanazioni di fumo delle lumiere ad olio".
Ad essere incaricato dei nuovi lavori fu ancora una volta Giuseppe
Borsato, scenografo ufficiale del teatro, che vide approvato il suo
progetto dalla commissione dell’Accademia di Belle Arti l’8 luglio 1828.
Elemento cardine della sala diveniva ora il grande lampadario appeso
ad una volta a padiglione sottesa da otto vele che inquadravano
altrettante lunette con strumenti musicali e geni alati. Al posto del
cocchio di Apollo, Borsato raffigurò, con una sensibilità già romantica,
le dodici ore della notte " chiamate a scioglier lietamente i lor balli, invece che riposando aspettare l’astro del giorno ",
mentre per i parapetti dei palchi scelse decorazioni monocrome
raffiguranti foglie di acanto, strumenti musicali, festoni, maschere,
genietti.
L’inaugurazione della nuova sala avvenne il 27 dicembre 1828, e l’evento fu in tal modo registrato dalla cronaca della "Gazzetta Privilegiata di Venezia" due giorni dopo:" Entriam di presente in mezzo alla elegantissima sala or ravvivata dall’illustre pennello del Borsato. La volta a chiaroscuro figura leggerissima una cupola, che mette nel centro ad un ricco rosone, intorno al quale, con vaga ed allusiva rappresentazione stanno le ore lietamente danzanti; chè meglio, e più lietamente non so dove passino, e peccato pure che volino così ratte, e sia mestieri attenderle da un anno all’altro! Una larga fascia d’ornamenti trattati, egualmente a chiaroscuro in campo d’oro, chiude intorno la cupola e fa capo ad un compartimento d’otto lunette, sostenute da ricche mensole, e lo sfondo delle quali è bello d’emblemi toccanti alle arti del canto con alcune dive alate. Una vittoria in campo d’oro unisce un bellissimo effetto l’una all’altra lunetta, dando maggior risalto e maggior varietà alle tinte generali. Altri emblemi, altri genii messi quale a colore, e quale a finto rilievo, tengono gli spazi lasciati dalla volta generale di sopra all’orchestra, e il di fuori de’ palchi proscenii dell’ultim’ordine; come un compartimento di bell’effetto divide il cielo del proscenio col nuovo orologio nel mezzo.
La pittura del soffitto si lega a quella dei palchi per via di nobile quadratura con modiglioni, e rosoni dorati, la quale si appoggia alla mezza vetta disegnata a chiaroscuro di griffi, e di cigni. Un cotal vivace giallognolo, che si vorrebbe però meno caldo, e più d’accordo colle tinte del soffitto, colora l’esterno delle pareti dei palchi, e tutto il disegno consiste in variati ornamenti a chiaroscuro allusivi d’ordine in ordine, alla tragedia, alla musica ed alla mimica, interrotti solamente a quando a quando da qualche medaglia in campo d’oro, coi busti di que’ sommi, che nella triplice arte si sono levati dalla schiera volgare ..... In mezzo a questo nuovo mondo a lui surto d’intorno, solo ancora rimane a mostrar le venerande vestigia del tempo, l’antico cornicione della scena."
L’inaugurazione della nuova sala avvenne il 27 dicembre 1828, e l’evento fu in tal modo registrato dalla cronaca della "Gazzetta Privilegiata di Venezia" due giorni dopo:" Entriam di presente in mezzo alla elegantissima sala or ravvivata dall’illustre pennello del Borsato. La volta a chiaroscuro figura leggerissima una cupola, che mette nel centro ad un ricco rosone, intorno al quale, con vaga ed allusiva rappresentazione stanno le ore lietamente danzanti; chè meglio, e più lietamente non so dove passino, e peccato pure che volino così ratte, e sia mestieri attenderle da un anno all’altro! Una larga fascia d’ornamenti trattati, egualmente a chiaroscuro in campo d’oro, chiude intorno la cupola e fa capo ad un compartimento d’otto lunette, sostenute da ricche mensole, e lo sfondo delle quali è bello d’emblemi toccanti alle arti del canto con alcune dive alate. Una vittoria in campo d’oro unisce un bellissimo effetto l’una all’altra lunetta, dando maggior risalto e maggior varietà alle tinte generali. Altri emblemi, altri genii messi quale a colore, e quale a finto rilievo, tengono gli spazi lasciati dalla volta generale di sopra all’orchestra, e il di fuori de’ palchi proscenii dell’ultim’ordine; come un compartimento di bell’effetto divide il cielo del proscenio col nuovo orologio nel mezzo.
La pittura del soffitto si lega a quella dei palchi per via di nobile quadratura con modiglioni, e rosoni dorati, la quale si appoggia alla mezza vetta disegnata a chiaroscuro di griffi, e di cigni. Un cotal vivace giallognolo, che si vorrebbe però meno caldo, e più d’accordo colle tinte del soffitto, colora l’esterno delle pareti dei palchi, e tutto il disegno consiste in variati ornamenti a chiaroscuro allusivi d’ordine in ordine, alla tragedia, alla musica ed alla mimica, interrotti solamente a quando a quando da qualche medaglia in campo d’oro, coi busti di que’ sommi, che nella triplice arte si sono levati dalla schiera volgare ..... In mezzo a questo nuovo mondo a lui surto d’intorno, solo ancora rimane a mostrar le venerande vestigia del tempo, l’antico cornicione della scena."
1837 - Dopo l’incendio
Dopo l’incendio del 1836, il Teatro venne ricostruito in tempi brevi risultando " opera sì magnifica, ed elegante, e in ogni sua parte così perfetta ". Nella serata inaugurale, il 26 dicembre, vennero rappresentati l’opera " Rosmunda in Ravenna " di Giuseppe Lillo, ed il ballo " Il ratto delle venete donzelle "
di Antonio Cortesi. Mentre l’originario teatro del Selva contemperava
anche dal punto di vista delle funzioni uno spazio che doveva
ugualmente comprendere la commedia e l’opera musicale, il restauro
condotto da Tommaso e Giambattista Meduna dopo l’incendio privilegiò la
sua destinazione musicale.Oltre
che della ricostruzione dell’interno, i due ingegneri-architetti si
occuparono anche delle decorazioni, fornendo indicazioni per il
rifacimento anche dell’atrio e delle sale apollinee, che si erano
salvate dalla distruzione del fuoco.uesta volta Giuseppe Borsato non volle partecipare al concorso per
la decorazione, probabilmente per favorire il suo congiunto Tranquillo
Orsi, professore di prospettiva all’Accademia, che risultò vincitore.
Questi ideò per il soffitto della sala una struttura vegetale a
intreccio che, dipartendosi dal rosone centrale, costituiva una specie
di pergolato, mentre medaglioni e figure di ispirazione ercolanese
completavano la decorazione all’intorno.Questo nel progetto, poiché in fase di realizzazione, cui
collaborarono Sebastiano Santi e Luigi Zandomeneghi, fece la sua
apparizione una fascia perimetrale con una serie di finti rilievi. A
Giuseppe Borsato, invece, il governo affidò la decorazione del palco
reale, realizzata con una coppia di cariatidi di legno dorato ed una
corona imperiale da cui ricadevano cortine color cremisi. Tra le novità
rilevanti introdotte nella struttura, si registrò l’arretramento dei
pilastrelli dei palchi con il conseguente aggetto dei parapetti ed un
beneficio per la visibilità. Ma non solo, perché, come annotarono i fratelli Meduna, "... l’aggetto
dei parapetti è la maggiore appariscenza delle signore, le cui
attrattive fanno giocondo il teatro, e colla loro eleganza gli danno
bell’ornamento: né si dubitò che tal effetto sarebbe mancato o scemato,
quando esse, occupate meno dello spettacolo che del conversare, col
discostarsi dalla sponda ne venissero occultate. Imperciocché non è
unico loro fine il vedere, né vogliono che tornino vane, o rimangano
inosservate le loro cure nell’abbigliarsi.
1837 - I pareri della stampa
La nuova decorazione suscitò pareri non sempre concordi. Per la "Gazzetta Privilegiata di Venezia" del 28 dicembre 1837 , "...
veramente sarebbe cosa difficile il veder nulla di più vago e ridente
della nuova sala della Fenice. V’ha non solo quale dilicatezza di tinte
ed armonia di splendori che l’animo, entrando, ne rimane come preso e
allegrato."E parlando del proscenio "
il soffittino è una gemma, in cui la grazia e la bellezza della idea
egrave; pari alla felicità dell’esecuzione. Ha in esso alcuni
scompartimenti a finto rilievo in cui la illusione dell’occhio si puó
dire veramente perfetta. Alla quale semplicità della pittura corrisponde
e armonizza la semplicità delle cortine di seta d’un cotal chiaro
cilestro, che aiuta mirabilmente l’effeto della pittura, e ci accresce
quel non so che di fresco e leggiero che vi si ammira."Ben
diverso il parere del cronista del milanese "Pirata" per il quale " il
rinnovato teatro è bello, gentile, galante, ma perché sovrabbonda in
gentilezza ed in galanteria manca secondo il mio modo di vedere, di
quel bello imponente che la vastità , e la natura del luogo
richiederebbero. Tutto tutto bianco con ornati d’oro frammezzati da
piccoli quadri a figure in tinte leggerissime, e gli ornati essendo pur
essi leggerissimi si ha un tutto che risplende per una luce minuta la
quale si confonde quasi fra quella d’un ornato e quella di un altro, e
se attrae seducentemente l’occhio non lo fissa in nessun luogo, su
nessun oggetto, e quando lo alza alla volta vi trova pure lo stesso
minuto splendore, e solo colà puó fissarsi nella stella a color bronzo
in oro da cui pende una bella lumiera abbastanza ben illuminata. Le
cortine poi dei palchi seguitando l’adottato sistema di gentilezza, e di
galanteria sono d’un colore celeste chiaro assai, che smarrisce allo
splendore della lumiera, della ribalta, e dell’orchestra per cui quei
palchi appajono ornati di stoffa d’un bianco che sentí le ingiurie del
tempo. Il palco imperiale è meschinissimo in tutta l’estensione del
termine sí per la ristrettezza dello spazio che occupa, che per gli
addobbi ond’è vestito."
1837 - L’atrio e la facciata
In occasione della ricostruzione
dopo l’incendio, si rifecero anche gli stucchi dell’atrio del Selva per
mano di Giambattista Lucchesi e Giambattista Negri, concordemente
elogiati per lo " stupendissimo " risultato ottenuto sostituendo le
scene affrescate del ’700 con specchi e marmorini che mettevano in
risalto l’architettura. Una "... maestosa scala in pietra con laterali
balaustre, pur di pietra..." portava alla "...grande ricca sala ad uso
di accademie musicali e di festini.... E’ la sala decorata nelle pareti
con pilastri corintii a stucco, fra i quali sono infisse otto
specchiere di nove lastre con foglia per ciascuna, e con riquadratura
di legno all’intorno indorata."Qualche intervento toccò pure alla facciata sul Rio Menuo dove gruppi
di putti a monocromo vennero affrescati nelle sette lunette del portico
da Sebastiano Santi; mentre nel vestibolo dell’entrata via terra
furono collocate due steli. Una a sinistra, opera di Luigi
Zandomeneghi, raffigurante Carlo Goldoni; l’altra a destra, scolpita da
Antonio Giaccarelli su disegno di Giambattista Meduna in omaggio al
Selva, mentre sulla facciata faceva la sua comparsa la nuova insegna
del Teatro in oro e celeste.
1854 - Restauro del palco imperiale
Il successivo
intervento sulla sala della Fenice avvenne nel 1854, e fu dovuto alla
necessità di restaurare il soffitto, il che costituì l’occasione per
procedere ad una nuova decorazione secondo l’estetica allora in voga.
Al gusto allora imperante, tutto aperto ai più diversi stili del
passato ed all’esotico, la decorazione del teatro, improntata a canoni
tardo-neoclassici, doveva sembrare ormai superata. Comunque, gli unici
interventi che si registrarono dopo la ricostruzione del 1837
riguardarono solo il palco imperiale che la sollevazione popolare del
’48 volle fosse abolito in quanto simbolo dell’oppressione austriaca.Tuttavia, i sei
palchi che allora vennero costruiti al posto della loggia imperiale,
che riportarono la Fenice alle sue origini settecentesche, ebbero vita
effimera. Il 22 agosto 1849, infatti, " ritornato l’Imperial
Regio Governo Austriaco venne da questo ordinato di ricostruire la
loggia nella stessa precedente sua forma, e ne fu tosto attuato il
lavoro. ." dai Meduna.
1854 - Pro e contro il Meduna
Il Teatro venne riaperto la sera di
Santo Stefano del 1854 " al pubblico impaziente e curioso in tutto lo
splendore della sua appariscente bellezza " con la rappresentazione del
"Marco Visconti" di Domenico Bolognese su musica di Enrico Petrella. A
lavorare al restuaro furono chiamati artisti veneziani come il pittore
Leonardo Gavagnin, l’ornatista Giuseppe Voltan, lo stuccatore Osvaldo
Mazzoran, mentre Pietro ed Antonio Garbato con Alessandro Dal Fabbro si
occuparono della mobilia e degli intagli.Favorevole fu il commento di Tommaso Locatelli della "Gazzetta
Ufficiale di Venezia" al lavoro del Meduna, mentre di tono diverso fu
l’articolo apparso nel giornale "I Fiori", che ebbe a pubblicare che "
primo dovere ... dell’artista-decoratore di un teatro è quello di
decorarlo in modo che non nuocia all’effetto della scena, e ognun sa che
i troppo smaglianti colori della sala, le soverchie dorature ... e la
bocca-scena troppo vivace e seducente, sono elementi che militano a
scapito dell’effetto delle sceniche decorazioni, scemano l’illusione, e
stancano la vista dell’osservatore. Da questo lato il nostro splendido e
rinnovato teatro può trovare qualche censura. La profusione delle
dorature e delle inargentature, la loro imbrunitura brillante; la
sovrabbondanza di fiori dipinti, i tanti medaglioni o patere, a colori
che distraggono lasciando pochi riposi; tutto ciò, fatto più ardito da
un’illuminazione splendida, può abbagliare, può piacere, abbaglia anzi e
piace; ma non è forse ligio alle buone regole dell’arte decorativa,
avverso forse alla regola di ben ragionata decorazione teatrale.
1828 - Il restauro
E di certo la
nuova loggia imperiale dovette attirare l’attenzione di tutti i
presenti alla serata inaugurale il 26 dicembre, essendo essa divenuta
il fulcro della sala teatrale, tanto più che la decorazione, secondo
una scelta di coerente gusto neoclassico che consentiva anche un
apprezzabile contenimento di spesa, offriva raffinate variazioni in
monocromo.Comunque si conquistò il sincero favore del Segretario della I.R. Accademia Antonio Diedo che la definì " opera pregevolissima, che accoppia in modo distinto la comodità all’eleganza ",
nonchè gli apprezzamenti di Clemente di Metternich che, omaggiato
nuovo signore, potè assistere la sera del 16 dicembre 1822 ad uno
spettacolo che lui stesso definì " sans pareil " in una loggia che gli apparì " merveilleusement belle ".
Tuttavia, ad appena tre anni dalla visita del Metternich si rese
necessario un restauro radicale dato che " le autorità governative -
avevano espresso - ripetutamente il loro malcontento per lo stato
indecoroso nel quale era ridotta la decorazione della sala teatrale sia a
causa del tempo sia per le emanazioni di fumo delle lumiere ad olio".
Ad essere incaricato dei nuovi lavori fu ancora una volta Giuseppe
Borsato, scenografo ufficiale del teatro, che vide approvato il suo
progetto dalla commissione dell’Accademia di Belle Arti l’8 luglio 1828.
Elemento cardine della sala diveniva ora il grande lampadario appeso
ad una volta a padiglione sottesa da otto vele che inquadravano
altrettante lunette con strumenti musicali e geni alati. Al posto del
cocchio di Apollo, Borsato raffigurò, con una sensibilità già romantica,
le dodici ore della notte " chiamate a scioglier lietamente i lor balli, invece che riposando aspettare l’astro del giorno ",
mentre per i parapetti dei palchi scelse decorazioni monocrome
raffiguranti foglie di acanto, strumenti musicali, festoni, maschere,
genietti.
L’inaugurazione della nuova sala avvenne il 27 dicembre 1828, e
l’evento fu in tal modo registrato dalla cronaca della "Gazzetta
Privilegiata di Venezia" due giorni dopo:"
Entriam di presente in mezzo alla elegantissima sala or ravvivata
dall’illustre pennello del Borsato. La volta a chiaroscuro figura
leggerissima una cupola, che mette nel centro ad un ricco rosone,
intorno al quale, con vaga ed allusiva rappresentazione stanno le ore
lietamente danzanti; chè meglio, e più lietamente non so dove passino, e
peccato pure che volino così ratte, e sia mestieri attenderle da un
anno all’altro! Una larga fascia d’ornamenti trattati, egualmente a
chiaroscuro in campo d’oro, chiude intorno la cupola e fa capo ad un
compartimento d’otto lunette, sostenute da ricche mensole, e lo sfondo
delle quali è bello d’emblemi toccanti alle arti del canto con alcune
dive alate. Una vittoria in campo d’oro unisce un bellissimo effetto
l’una all’altra lunetta, dando maggior risalto e maggior varietà alle
tinte generali. Altri emblemi, altri genii messi quale a colore, e
quale a finto rilievo, tengono gli spazi lasciati dalla volta generale
di sopra all’orchestra, e il di fuori de’ palchi proscenii
dell’ultim’ordine; come un compartimento di bell’effetto divide il
cielo del proscenio col nuovo orologio nel mezzo.La
pittura del soffitto si lega a quella dei palchi per via di nobile
quadratura con modiglioni, e rosoni dorati, la quale si appoggia alla
mezza vetta disegnata a chiaroscuro di griffi, e di cigni. Un cotal
vivace giallognolo, che si vorrebbe però meno caldo, e più d’accordo
colle tinte del soffitto, colora l’esterno delle pareti dei palchi, e
tutto il disegno consiste in variati ornamenti a chiaroscuro allusivi
d’ordine in ordine, alla tragedia, alla musica ed alla mimica,
interrotti solamente a quando a quando da qualche medaglia in campo
d’oro, coi busti di que’ sommi, che nella triplice arte si sono levati
dalla schiera volgare ..... In mezzo a questo nuovo mondo a lui surto
d’intorno, solo ancora rimane a mostrar le venerande vestigia del tempo,
l’antico cornicione della scena."
1837 - Dopo l’incendio
Dopo l’incendio del 1836, il Teatro venne ricostruito in tempi brevi risultando " opera sì magnifica, ed elegante, e in ogni sua parte così perfetta ". Nella serata inaugurale, il 26 dicembre, vennero rappresentati l’opera " Rosmunda in Ravenna " di Giuseppe Lillo, ed il ballo " Il ratto delle venete donzelle "
di Antonio Cortesi. Mentre l’originario teatro del Selva contemperava
anche dal punto di vista delle funzioni uno spazio che doveva
ugualmente comprendere la commedia e l’opera musicale, il restauro
condotto da Tommaso e Giambattista Meduna dopo l’incendio privilegiò la
sua destinazione musicale.Oltre
che della ricostruzione dell’interno, i due ingegneri-architetti si
occuparono anche delle decorazioni, fornendo indicazioni per il
rifacimento anche dell’atrio e delle sale apollinee, che si erano
salvate dalla distruzione del fuoco.Questa volta Giuseppe Borsato non volle partecipare al concorso per
la decorazione, probabilmente per favorire il suo congiunto Tranquillo
Orsi, professore di prospettiva all’Accademia, che risultò vincitore.
Questi ideò per il soffitto della sala una struttura vegetale a
intreccio che, dipartendosi dal rosone centrale, costituiva una specie
di pergolato, mentre medaglioni e figure di ispirazione ercolanese
completavano la decorazione all’intorno.Questo nel progetto, poiché in fase di realizzazione, cui
collaborarono Sebastiano Santi e Luigi Zandomeneghi, fece la sua
apparizione una fascia perimetrale con una serie di finti rilievi. A
Giuseppe Borsato, invece, il governo affidò la decorazione del palco
reale, realizzata con una coppia di cariatidi di legno dorato ed una
corona imperiale da cui ricadevano cortine color cremisi. Tra le novità
rilevanti introdotte nella struttura, si registrò l’arretramento dei
pilastrelli dei palchi con il conseguente aggetto dei parapetti ed un
beneficio per la visibilità.Ma non solo, perché, come annotarono i fratelli Meduna, "... l’aggetto
dei parapetti è la maggiore appariscenza delle signore, le cui
attrattive fanno giocondo il teatro, e colla loro eleganza gli danno
bell’ornamento: né si dubitò che tal effetto sarebbe mancato o scemato,
quando esse, occupate meno dello spettacolo che del conversare, col
discostarsi dalla sponda ne venissero occultate. Imperciocché non è
unico loro fine il vedere, né vogliono che tornino vane, o rimangano
inosservate le loro cure nell’abbigliarsi.
1837 - I pareri della stampa
La nuova decorazione suscitò pareri non sempre concordi. Per la "Gazzetta Privilegiata di Venezia" del 28 dicembre 1837 , "...
veramente sarebbe cosa difficile il veder nulla di più vago e ridente
della nuova sala della Fenice. V’ha non solo quale dilicatezza di tinte
ed armonia di splendori che l’animo, entrando, ne rimane come preso e
allegrato."E parlando del proscenio "
il soffittino è una gemma, in cui la grazia e la bellezza della idea
egrave; pari alla felicità dell’esecuzione. Ha in esso alcuni
scompartimenti a finto rilievo in cui la illusione dell’occhio si puó
dire veramente perfetta. Alla quale semplicità della pittura corrisponde
e armonizza la semplicità delle cortine di seta d’un cotal chiaro
cilestro, che aiuta mirabilmente l’effeto della pittura, e ci accresce
quel non so che di fresco e leggiero che vi si ammira."Ben
diverso il parere del cronista del milanese "Pirata" per il quale " il
rinnovato teatro è bello, gentile, galante, ma perché sovrabbonda in
gentilezza ed in galanteria manca secondo il mio modo di vedere, di
quel bello imponente che la vastità , e la natura del luogo
richiederebbero. Tutto tutto bianco con ornati d’oro frammezzati da
piccoli quadri a figure in tinte leggerissime, e gli ornati essendo pur
essi leggerissimi si ha un tutto che risplende per una luce minuta la
quale si confonde quasi fra quella d’un ornato e quella di un altro, e
se attrae seducentemente l’occhio non lo fissa in nessun luogo, su
nessun oggetto, e quando lo alza alla volta vi trova pure lo stesso
minuto splendore, e solo colà puó fissarsi nella stella a color bronzo
in oro da cui pende una bella lumiera abbastanza ben illuminata. Le
cortine poi dei palchi seguitando l’adottato sistema di gentilezza, e di
galanteria sono d’un colore celeste chiaro assai, che smarrisce allo
splendore della lumiera, della ribalta, e dell’orchestra per cui quei
palchi appajono ornati di stoffa d’un bianco che sentí le ingiurie del
tempo. Il palco imperiale è meschinissimo in tutta l’estensione del
termine sí per la ristrettezza dello spazio che occupa, che per gli
addobbi ond’è vestito."
1837 - L’atrio e la facciata
In occasione della ricostruzione
dopo l’incendio, si rifecero anche gli stucchi dell’atrio del Selva per
mano di Giambattista Lucchesi e Giambattista Negri, concordemente
elogiati per lo " stupendissimo " risultato ottenuto sostituendo le
scene affrescate del ’700 con specchi e marmorini che mettevano in
risalto l’architettura. Una "... maestosa scala in pietra con laterali
balaustre, pur di pietra..." portava alla "...grande ricca sala ad uso
di accademie musicali e di festini.... E’ la sala decorata nelle pareti
con pilastri corintii a stucco, fra i quali sono infisse otto
specchiere di nove lastre con foglia per ciascuna, e con riquadratura
di legno all’intorno indorata."Qualche intervento toccò pure alla facciata sul Rio Menuo dove gruppi
di putti a monocromo vennero affrescati nelle sette lunette del portico
da Sebastiano Santi; mentre nel vestibolo dell’entrata via terra
furono collocate due steli. Una a sinistra, opera di Luigi
Zandomeneghi, raffigurante Carlo Goldoni; l’altra a destra, scolpita da
Antonio Giaccarelli su disegno di Giambattista Meduna in omaggio al
Selva, mentre sulla facciata faceva la sua comparsa la nuova insegna
del Teatro in oro e celeste.
1854 - Restauro del palco imperiale
Il successivo
intervento sulla sala della Fenice avvenne nel 1854, e fu dovuto alla
necessità di restaurare il soffitto, il che costituì l’occasione per
procedere ad una nuova decorazione secondo l’estetica allora in voga.
Al gusto allora imperante, tutto aperto ai più diversi stili del
passato ed all’esotico, la decorazione del teatro, improntata a canoni
tardo-neoclassici, doveva sembrare ormai superata. Comunque, gli unici
interventi che si registrarono dopo la ricostruzione del 1837
riguardarono solo il palco imperiale che la sollevazione popolare del
’48 volle fosse abolito in quanto simbolo dell’oppressione austriaca.Tuttavia, i sei
palchi che allora vennero costruiti al posto della loggia imperiale,
che riportarono la Fenice alle sue origini settecentesche, ebbero vita
effimera. Il 22 agosto 1849, infatti, " ritornato l’Imperial
Regio Governo Austriaco venne da questo ordinato di ricostruire la
loggia nella stessa precedente sua forma, e ne fu tosto attuato il
lavoro. ." dai Meduna.
1854 - Pro e contro il Meduna
Il Teatro venne riaperto la sera di
Santo Stefano del 1854 " al pubblico impaziente e curioso in tutto lo
splendore della sua appariscente bellezza " con la rappresentazione del
"Marco Visconti" di Domenico Bolognese su musica di Enrico Petrella. A
lavorare al restuaro furono chiamati artisti veneziani come il pittore
Leonardo Gavagnin, l’ornatista Giuseppe Voltan, lo stuccatore Osvaldo
Mazzoran, mentre Pietro ed Antonio Garbato con Alessandro Dal Fabbro si
occuparono della mobilia e degli intagli.Favorevole fu il commento di Tommaso Locatelli della "Gazzetta
Ufficiale di Venezia" al lavoro del Meduna, mentre di tono diverso fu
l’articolo apparso nel giornale "I Fiori", che ebbe a pubblicare che "
primo dovere ... dell’artista-decoratore di un teatro è quello di
decorarlo in modo che non nuocia all’effetto della scena, e ognun sa che
i troppo smaglianti colori della sala, le soverchie dorature ... e la
bocca-scena troppo vivace e seducente, sono elementi che militano a
scapito dell’effetto delle sceniche decorazioni, scemano l’illusione, e
stancano la vista dell’osservatore. Da questo lato il nostro splendido e
rinnovato teatro può trovare qualche censura. La profusione delle
dorature e delle inargentature, la loro imbrunitura brillante; la
sovrabbondanza di fiori dipinti, i tanti medaglioni o patere, a colori
che distraggono lasciando pochi riposi; tutto ciò, fatto più ardito da
un’illuminazione splendida, può abbagliare, può piacere, abbaglia anzi e
piace; ma non è forse ligio alle buone regole dell’arte decorativa,
avverso forse alla regola di ben ragionata decorazione teatrale."
1937 - Il restauro di Miozzi e Barbantini
Tutti i commenti, comunque, in
maniera concorde‚ sottolinearono il carattere marcatamente "barocco" o
"rococò" della sala, che Meduna enfatizzò passando dalla fase
progettuale alla realizzazione, in ciò assecondando uno stile tornato
prepotentemente di moda, facendo del palco imperiale il vero e proprio
culmine del rigoglio dorato.Egli stesso, presentando il proprio progetto il 2 giugno 1854, ebbe modo di scrivere: Tutto
il Teatro per carattere e stile, per esso prescelto, per la
molteplicità degli ornamenti stessi e delle molte dorature va a riuscire
di non comune ricchezza. Pensava dunque il sottoscritto che la Loggia
destinata ed appartenente al Monarca dovesse, come deve, vincere
nell’effetto il Teatro, e ad ottenere questo effetto nessuna parte deve
rimanere scoperta d’intagli, di dorature, di pregievoli dipinti, e che
tutto prevalesse ad un fondo di velluto. Suppose perciò un Padiglione
nel quale gli ornamenti possono essere espressione dell’uso .Risultato
per altro riconosciuto dai contemporanei che, per la penna del
Locatelli, espressero la propria meraviglia di fronte a tanta
magnificenza: " La loggia imperiale è tutto quello, che di
più signorile e sfarzoso uno possa ideare: lo sfoggio unito al più
elegante nitore; e quando diremo che ne adorna il soffitto un quadro
simboleggiante l’apoteosi delle scienze e delle arti, nella sembianza
di due vezzose donzelle; che il velluto di cui le pareti si tendono
sparisce sotto la copia sterminata degli ori, che sfolgorano per tutto e
di tutte le guise, in pilastrini, in istatue, in festoni, in ghirlande
e cornici, intorno a porte, a quadretti, a specchiere con ismalti di
fiori, che a’ lati e di sopra e’ si chiude da regale padiglion di
velluto: quando tutto questo diremo, non avremo renduto a mezzo
l’effetto di quel tutto meraviglioso. Chi le vide, assicura che più
sorprendenti non sono le magnificenze degli addobbi di Versaglia .
Richiamandosi
ad un Settecento immaginario, il Teatro nuovamente restaurato dal
Meduna si riallacciava al mito di un tempo felice ed irrimediabilmente
passato, quando ancora Venezia poteva essere annoverata tra le capitali
dell’arte e della cultura. Così, allo spettatore che vi entrava, la
ricca sala del Teatro poteva dare per un momento l’illusione di
rivivere quel passato glorioso e magnifico, facendolo evadere dalla
realtà di profonda crisi e declino che la città invece drammaticamente
viveva. Ed il Teatro che venne inaugurato nel dicembre 1854 era
praticamente lo stesso andato perduto nel corso dell’ultimo recente
incendio.Rimane solo da registrare qualche
significativo intervento di Lodovico Cadorin fra il 1854 ed il 1859
negli ambienti del piano nobile e negli stucchi dello scalone di
accesso alle sale apollinee, le cui tracce ad ogni modo furono disperse
dal "restauro" del 1937.
Un altro intervento avvenne poco dopo l’aggregazione di Venezia al Regno d’Italia, quando si volle celebrare con spirito risorgimentale, per quanto in ritardo, il sesto centenario della nascita di Dante affrescando le pareti di un ambiente della Fenice con sei episodi della Commedia e dipingendo nel soffitto una composizione allegorica con il busto del poeta incoronato dall’Italia. Lavoro, questo, attribuito a Giacomo Casa e destinato ad essere ricoperto nel 1976 da dipinti di Virgilio Guidi.
Quando nel 1937 si costituì l’Ente Autonomo, si decise un rinnovamento generale dell’edificio, accogliendo il progetto dell’ingegner Eugenio Miozz per la parte architettonica, e di Nino Barbantini per quella decorativa.Si ampliò così l’atrio terreno riproponendo la struttura architettonica del Selva. Furono anche eliminati gli affreschi di alcune sale superiori che vennero ornate con fasce a stucco di stile neoclassico, collocandovi mobili di stile Impero.Nel corso dell’intervento del ’37, la sala teatrale fu toccata solo negli accessi alla platea, che vennero sostituiti da una grande porta sotto la loggia reale allora adornata con un grande stemma sabaudo.Proclamata la repubblica, lo stemma monarchico sparì per lasciare il posto al leone marciano.
Un altro intervento avvenne poco dopo l’aggregazione di Venezia al Regno d’Italia, quando si volle celebrare con spirito risorgimentale, per quanto in ritardo, il sesto centenario della nascita di Dante affrescando le pareti di un ambiente della Fenice con sei episodi della Commedia e dipingendo nel soffitto una composizione allegorica con il busto del poeta incoronato dall’Italia. Lavoro, questo, attribuito a Giacomo Casa e destinato ad essere ricoperto nel 1976 da dipinti di Virgilio Guidi.
Quando nel 1937 si costituì l’Ente Autonomo, si decise un rinnovamento generale dell’edificio, accogliendo il progetto dell’ingegner Eugenio Miozz per la parte architettonica, e di Nino Barbantini per quella decorativa.Si ampliò così l’atrio terreno riproponendo la struttura architettonica del Selva. Furono anche eliminati gli affreschi di alcune sale superiori che vennero ornate con fasce a stucco di stile neoclassico, collocandovi mobili di stile Impero.Nel corso dell’intervento del ’37, la sala teatrale fu toccata solo negli accessi alla platea, che vennero sostituiti da una grande porta sotto la loggia reale allora adornata con un grande stemma sabaudo.Proclamata la repubblica, lo stemma monarchico sparì per lasciare il posto al leone marciano.
1996 - 2003 - La ricostruzione
Il 29 gennaio 1996 un devastante
incendio doloso distrugge il teatro, temporaneamente chiuso per lavori
di manutenzione. Il rogo impegna i vigili del fuoco per tutta la notte.
Il mondo intero piange la perdita di uno dei teatri più belli,
dalla straordinaria acustica e protagonista a sempre della vita
operistica, musicale e culturale italiana ed europea. Dal dolore
della perdita nasce la volontà di ricostruire lo storico teatro
ispirandosi al motto “com’era, dov’era”, ripreso dalla ricostruzione del
campanile di S. Marco.Immediatamente
dopo l’incendio si eseguono tutti gli interventi necessari a prevenire
ed evitare situazioni di pericolo per la pubblica incolumità, come ad
esempio le opere di puntellazione delle murature perimetrali. Solo dopo
il dissequestro del cantiere viene quindi avviata la rimozione delle
macerie, smaltite in circa tre mesi.Già il 6 febbraio vengono
stanziate con decreto legge le prime risorse finanziarie e viene
istituita la figura del Commissario Delegato per la ricostruzione.Il 7 settembre ’96 viene pubblicato il bando di gara cui partecipano
dieci imprese italiane ed estere, giudicate il 30 maggio 1997. Dopo
alcuni ricorsi, la A.T.I. Holzmann si aggiudica l’appalto con il
progetto dell’architetto Aldo Rossi.Il 4 ottobre 2000 il Sindaco
di Venezia, prof. Paolo Costa, viene nominato Commissario Delegato per
la ricostruzione in sostituzione al Prefetto.
Il 26 marzo 2001 il Commissario Delegato espletata la procedura prevista dalla normativa, risolve il contratto di appalto per grave inadempienza dell’impresa sui tempi di esecuzione e sulla conduzione dei lavori e dispone per l’estromissione dell’A.T.I. Holzmann dal cantiere e per la sua riconsegna, che avviene poi in modo coattivo con l’intervento della Forza Pubblica il 27 aprile 2001. Fermo restando il progetto Rossi, segue una nuova gara d’appalto che viene vinta il 5 ottobre 2001 dalla cordata di imprese A.T.I. Sacaim (mandataria) – C.C.C. – Gemmo Impianti – Mantovani, in quanto migliore offerente (54,8 milioni di euro). Le vicende legali e le polemiche sulla ricostruzione non fermano i lavori che procedono a passo spedito con l’organizzazione in cinque cantieri paralleli che vedono impegnati quotidianamente circa 300 unità fra operai, restauratori e decoratori. L’8 dicembre 2003 viene consegnato il teatro al Comune di Venezia ed alla Fondazione Teatro La Fenice per gli eventi della settimana inaugurale, dal 14 al 21 dicembre, che vede partecipare direttori, orchestre e formazioni corali di fama internazionale. L’8 gennaio 2004 la Sacaim riprende possesso dei cantieri per l’ultimazione dei lavori. Consegna definitiva: 8 maggio 2004. Ritorno del Gran Teatro La Fenice: novembre 2004 con “La traviata”, l’opera di Verdi che debuttò proprio nel teatro veneziano.
La ricostruzione si compie con la realizzazione del progetto dell’architetto Aldo Rossi, scomparso nel 1997. Il progetto di ricostruzione del teatro pur fortemente vincolato al motto “com’era, dov’era”, ritaglia un possibile ambito di nuova progettualità legato alle capacità interpretative dell’architetto. La lettura del progetto di Aldo Rossi può essere effettuata attraverso le parti che definiscono il Teatro La Fenice, cinque diversi ambiti con differenti vincoli e libertà: a ciascuno dei quali corrispondono diversi criteri di intervento che rispecchiano altrettanti temi di architettura.Sale Apollinee: restauro conservativo e ricostruzioneL’avancorpo del Teatro, la cui facciata principale prospetta sul Campo San Fantin da cui avviene l’ingresso principale degli spettatori, a piano terreno contiene l’atrio ed il foyer, da cui, mediante lo scalone d’onore, si giunge alle Sale Apollinee propriamente dette e gravemente danneggiate nell’incendio: per esse è stato effettuato un intervento conservativo delle parti residue ed una ricostruzione filologica di quelle rimanenti, con l’utilizzo di materiali e tecniche tradizionali. Il progetto di restauro dei decori si definisce come un “atto d’amore verso i frammenti superstiti”: usando le stesse parole di Aldo Rossi, affinché sia sempre possibile anche dopo l’intervento di restauro e di integrazione, una lettura della storia dell’edificio. Nel sottotetto, liberato dalla sua antica destinazione di laboratorio scenografico, è stata ricavata una nuova sala espositiva aperta al pubblico anche grazie alla nuova scala esterna di sicurezza. Tale spazio, uno dei più interessanti del complesso teatrale con le sue imponenti capriate lignee a vista, è stato ricostruito com’era e, per le sue proporzioni e la sua architettura, si presta alla realizzazione di manifestazioni culturali.Sala Teatrale: ricostruzione filologicaLa sala teatrale completamente distrutta dall’incendio è caratterizzata da una ricostruzione filologica basata, sul rigoroso "com’era, dov’era", con il mantenimento di tutti i cinque ordini di palchi, corredati del medesimo apparato decorativo in cartapesta e legno anche sulla base di una minuziosa ricerca fotografica. Il concetto informatore è stato quello di riproporre la sala originaria soprattutto nella sua specifica soluzione tecnica, basata sul prevalente uso del legno accuratamente scelto e sapientemente trattato per ottenere la migliore resa acustica. Il progetto ha dato luogo anche al ripristino dell’originario accesso alla sala teatrale dalla cosiddetta “entrata d’acqua” dal rio prospiciente il teatro. Tale accesso, originariamente voluto dal Selva, nel corso del tempo non era più stato utilizzato dagli spettatori. Nel piano sottoplatea vengono ricavate alcune sale prova per gli strumentisti che, consentono ai professori d’orchestra di accedere al Golfo Mistico senza interferire con la sala. La modifica del sistema delle vie di fuga, oltre che l’adeguamento degli impianti, ha inoltre consentito di portare il numero degli spettatori ammissibili dagli 840, precedenti all’incendio, ai nuovi 1000 posti.Torre Scenica: ricostruzione e realizzazione di nuova macchina scenicaAnch’essa è stata devastata dall’incendio del 1996 ed il suo volume architettonico è vincolato alla configurazione precedente. La nuova macchina scenica, completamente rinnovata nell’ottica del miglioramento delle caratteristiche tecnologiche del teatro, collabora con le strutture murarie ed è stata progettata contestualmente all’Ala Nord per permettere il massimo utilizzo del palcoscenico e dei vani attigui idonei al ricovero delle scene. In tale ottica è stato realizzato un nuovo palcoscenico laterale che potrà traslare sul principale, ottenuto grazie alla demolizione dei preesistenti arconi ad ogiva che delimitavano lo spazio scenico.Ala Nord: ristrutturazioneE’ il corrispondente nucleo edilizio addossato al teatro vero e proprio, anch’esso danneggiato nell’incendio per il quale è possibile una maggiore libertà di progettazione in mancanza di strutture storiche di rilievo. Fin dai tempi del Selva e poi nelle successive modificazioni e ampliamenti del teatro dovuti al Meduna, al Cadorin ed infine al Miozzi, questa parte di edificio ha da sempre interagito con la zona del palcoscenico ed ha progressivamente occupato l’antico sedime della corte Lavezzera. Sono stati completamente ridisegnati i servizi teatrali tenendo conto delle esigenze funzionali del teatro stesso (spogliatoi, camerini, sale prova) razionalizzando ed adeguando alle norme vigenti scale di sicurezza ed i sistemi di risalita in generale.Ala Sud: ristrutturazione e nuova realizzazioneAnch’essa danneggiata nell’incendio, questa porzione del complesso teatrale contiene, oltre agli uffici gestionali del Teatro, riposizionati ed organizzati, il segno architettonico più forte nella ricostruzione: la Sala Nuova, ora chiamata Sala Rossi. Tale sala è composta di una zona in piano per l’orchestra, e di un ballatoio a gradoni per i coristi o per il pubblico durante l’esecuzione di concerti da camera o conferenze, è caratterizzata dalla quinta scenografica interna che riproduce un frammento della Basilica Palladiana di Vicenza; utilizzata longitudinalmente ripropone, per il coro e l’orchestra, la medesima posizione del palcoscenico nella sala teatrale ed è stata progettata con l’obiettivo di rendere la medesima acustica della sala teatrale. Nel contempo la Sala Nuova può essere usata autonomamente con accesso dalla calle prospiciente il Rio de la Fenice, ove possono avere luogo anche concerti da camera e conferenze, ampliando così le funzionalità della Fenice, e diventando quindi un altro importante polo delle attività del corpo teatrale al servizio della città.
Visita anche
• www.ricostruzionefenice.it •
• www.ricostruzionefenice.it •
Piccola bibliografia
sulla ricostruzione
del Gran Teatro La Fenice
"I progetti per la ricostruzione del teatro La Fenice, 1997" sulla ricostruzione
del Gran Teatro La Fenice
AA.VV.
Pubblicazione in occasione della Mostra tenuta a Venezia nel 2000
Venezia, Marsilio, 2000
269 p. - ill.
ISBN 88-317-7605-3
"Il Teatro La Fenice a Venezia: studi per la ricostruzione dov’era ma non necessariamente com’era"
di Valeriano Pastor
a cura di Maura Manzelle
Catalogo della mostra tenuta a Venezia nel 1999
Venezia, IUAV, 1999
195 p. - ill.
ISBN 88-87697-06-X
"Il giudice e l’architetto: opere pubbliche e giustizia amministrativa: il caso della Fenice"
di Emilio Rosini
Padova, Il poligrafo, 2000
92 p. - ill.
ISBN 88-7115-180-1
"La Fenice verso la ricostruzione: giornata internazionale di studi. Venezia, Palazzo Giustinian Lolin 9 giugno 1996"
AA.VV.
A cura di Claudia Canella e Licia Cavasin
Venezia, Fondazione Levi, 1996
106 p.
"Il restauro della Fenice: problemi filologici e di metodo"
AA.VV.
da "Quasar: quaderni di storia dell’architettura e restauro" - Dipartimento di storia dell’architettura e restauro delle strutture architettoniche, Facoltà di architettura, Università degli studi di Firenze
Firenze, Pontecorboli, 1996
138 p. - ill.
"Il teatro La Fenice: i progetti, l’architettura, le decorazioni"
di Manlio Brusatin e Giuseppe Pavanello
con un saggio di Cesare De Michelis
Venezia, Albrizzi, 1996
306 p. - ill.
ISBN 88-317-6504-4
"Il decoro della Fenice: tecniche per la ricostruzione e il restauro degli apparati decorativi"
AA.VV.
A cura di Francesco Amendolagine e Giuseppe Boccanegra
Venezia, Marsilio, 1997
150 p. - ill.
ISBN 88-317-6806-9
Comunque si conquistò il sincero favore del Segretario della I.R. Accademia Antonio Diedo che la definì " opera pregevolissima, che accoppia in modo distinto la comodità all’eleganza ", nonchè gli apprezzamenti di Clemente di Metternich che, omaggiato nuovo signore, potè assistere la sera del 16 dicembre 1822 ad uno spettacolo che lui stesso definì " sans pareil " in una loggia che gli apparì " merveilleusement belle ". Tuttavia, ad appena tre anni dalla visita del Metternich si rese necessario un restauro radicale dato che " le autorità governative - avevano espresso - ripetutamente il loro malcontento per lo stato indecoroso nel quale era ridotta la decorazione della sala teatrale sia a causa del tempo sia per le emanazioni di fumo delle lumiere ad olio".Ad essere incaricato dei nuovi lavori fu ancora una volta Giuseppe Borsato, scenografo ufficiale del teatro, che vide approvato il suo progetto dalla commissione dell’Accademia di Belle Arti l’8 luglio 1828. Elemento cardine della sala diveniva ora il grande lampadario appeso ad una volta a padiglione sottesa da otto vele che inquadravano altrettante lunette con strumenti musicali e geni alati. Al posto del cocchio di Apollo, Borsato raffigurò, con una sensibilità già romantica, le dodici ore della notte " chiamate a scioglier lietamente i lor balli, invece che riposando aspettare l’astro del giorno ", mentre per i parapetti dei palchi scelse decorazioni monocrome raffiguranti foglie di acanto, strumenti musicali, festoni, maschere, genietti. L’inaugurazione della nuova sala avvenne il 27 dicembre 1828, e l’evento fu in tal modo registrato dalla cronaca della "Gazzetta Privilegiata di Venezia" due giorni dopo:" Entriam di presente in mezzo alla elegantissima sala or ravvivata dall’illustre pennello del Borsato. La volta a chiaroscuro figura leggerissima una cupola, che mette nel centro ad un ricco rosone, intorno al quale, con vaga ed allusiva rappresentazione stanno le ore lietamente danzanti; chè meglio, e più lietamente non so dove passino, e peccato pure che volino così ratte, e sia mestieri attenderle da un anno all’altro! Una larga fascia d’ornamenti trattati, egualmente a chiaroscuro in campo d’oro, chiude intorno la cupola e fa capo ad un compartimento d’otto lunette, sostenute da ricche mensole, e lo sfondo delle quali è bello d’emblemi toccanti alle arti del canto con alcune dive alate. Una vittoria in campo d’oro unisce un bellissimo effetto l’una all’altra lunetta, dando maggior risalto e maggior varietà alle tinte generali. Altri emblemi, altri genii messi quale a colore, e quale a finto rilievo, tengono gli spazi lasciati dalla volta generale di sopra all’orchestra, e il di fuori de’ palchi proscenii dell’ultim’ordine; come un compartimento di bell’effetto divide il cielo del proscenio col nuovo orologio nel mezzo.La pittura del soffitto si lega a quella dei palchi per via di nobile quadratura con modiglioni, e rosoni dorati, la quale si appoggia alla mezza vetta disegnata a chiaroscuro di griffi, e di cigni. Un cotal vivace giallognolo, che si vorrebbe però meno caldo, e più d’accordo colle tinte del soffitto, colora l’esterno delle pareti dei palchi, e tutto il disegno consiste in variati ornamenti a chiaroscuro allusivi d’ordine in ordine, alla tragedia, alla musica ed alla mimica, interrotti solamente a quando a quando da qualche medaglia in campo d’oro, coi busti di que’ sommi, che nella triplice arte si sono levati dalla schiera volgare ..... In mezzo a questo nuovo mondo a lui surto d’intorno, solo ancora rimane a mostrar le venerande vestigia del tempo, l’antico cornicione della scena."
2003 - Inaugurazione
Per festeggiare la riapertura dello
storico teatro, la Fondazione Teatro La Fenice ed il Comune di
Venezia, assieme alla Regione del Veneto, presentano una settimana di
eventi musicali nella nuova Fenice. Alla presenza, in palco reale,
del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ed in diretta
televisiva, Riccardo Muti apre la Settimana Inaugurale nel ricostruito
Teatro La Fenice il 14 dicembre 2003, con l’Orchestra e il Coro del
Teatro La Fenice.Il
concerto si avvia con una pagina dal significato beneaugurante: “La
consacrazione della casa” di Ludwig van Beethoven, cui segue un
programma improntato alla grande tradizione della civiltà musicale
veneziana: di Igor Stravinskij, compositore che riposa nel cimitero
dell’Isola di San Michele, la “Sinfonia di Salmi”, seguita dal “Te Deum”
di Antonio Caldara, compositore veneziano e protagonista della vita
artistica della città lagunare fra Sei e Settecento; infine “Tre Marce
Sinfoniche” di Richard Wagner, legatissimo a Venezia per avervi
soggiornato varie volte e per avervi creato il secondo atto di “Tristan
und Isolde” e parte di “Parsifal” oltre che diretto una sua sinfonia
giovanile nel 1882 alle Sale Apollinee della Fenice. I solisti vocali
sono Patrizia Ciofi, Sara Allegretta, Sonia Ganassi, Sara Mingardo,
Mirko Guadagnini, Roberto Saccà, Michele Pertusi, Nicolas Rivenq.
Il 15 dicembre la Fenice ospita un concerto della Philharmonia Orchestra
di Londra diretta da Christian Thielemann. Ancora Richard Wagner nella
seconda serata che apre con il Preludio dell’atto primo di
“Lohengrin”, seguito dall’Intermezzo di “Manon Lescaut” di Giacomo
Puccini. Quindi ancora Wagner con il “Vorspiel und Liebestod” da
“Tristan und Isolde”. Concludono la serata due poemi sinfonici di
Richard Strauss: “Tod und Verklärung” e “Till Eulenspiegel”. Si
deve alla volontà di Luciano Berio, scomparso il 27 maggio 2003,
espressa in una lettera al Sovrintendente della Fondazione Teatro La
Fenice Giampaolo Vianello, la partecipazione alla terza serata della
Settimana Inaugurale, mercoledì 17 dicembre, dell’Orchestra e del Coro
dell’Accademia Nazionale Santa Cecilia di Roma e del Coro di Voci
Bianche Aureliano, che, diretti da Myung-Whun Chung, eseguono la
Sinfonia n. 3 di Gustav Mahler, con la solista Petra Lang.
“Ouverture” in prima assoluta, lavoro scritto per l’occasione dal
giovane compositore catanese Emanuele Casale, giovedì 18 dicembre.
L’Orchestra e il Coro del Teatro La Fenice, diretti da Marcello Viotti,
quindi propongono un omaggio al compositore e direttore d’orchestra
veneziano Giuseppe Sinopoli, con l’esecuzione di “Lou Salomè Suite n.
2”. A conclusione della serata, Viotti dirige la “Messe Solennelle” di
Gioachino Rossini con i solisti vocali Sara Allegretta, Sara Mingardo,
Mirko Guadagnini, Nicolas Rivenq. Il 19 dicembre, il palcoscenico
del Teatro La Fenice accoglie Elton John, tra i più rappresentativi e
celebri autori di musica pop europea. Per la prima volta a Venezia,
i Wiener Philharmoniker, diretti da Mariss Jansons, sono i
protagonisti del concerto del 20 dicembre, con l’esecuzione
dell’ouverture de “Euryanthe” di Carl Maria von Weber, cui segue la
Sinfonia n. 2 di Robert Schumann ed i “Quadri da un’esposizion” e di
Modest Petrovic Musorgskij. La Settimana Inaugurale si chiude il 21
dicembre con l’Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo diretta da
Yuri Temirkanov. Il maestro, in diverse occasioni ospite del Teatro La
Fenice al quale è particolarmente legato, vi torna ora con la propria
orchestra proponendo la Sinfonia n. 4 di Pëtr Il’ic Cajkovskij e “Le
sacre du printemps” di Igor Stravinskij.Il mese della Fenice di Paolo Costa, Sindaco di VeneziaPensando
a La Fenice, oggi, si prova la sensazione esaltante di anticipazione
di un evento atteso da tanto. Un momento al quale moltissime persone
hanno lavorato con intelligenza e maestria, con impegno e costanza.
Ricostruire il teatro e riaprirlo alla città ed alla musica è frutto
di un lavoro collettivo, che ha impegnato le Amministrazioni, le
imprese, tutti coloro, singoli privati e comitati, che hanno raccolto
fondi ed organizzato eventi. Ricostruire La Fenice è un fatto
simbolico per la città. Lo è per due motivi. Innanzitutto perché
significa che Venezia ha le energie, la forza e la capacità di
affrontare le difficoltà e di sconfiggerle, è cioè una città viva e
vitale in grado di esprimere una vera volontà di cambiamento. Poi,
perché vuol dire che anche in una situazione oggettivamente difficile,
logisticamente complicata, caratterizzata da innumerevoli problemi
tecnici, è possibile, con tenacia e decisione, ottenere ottimi
risultati in tempi rapidi e seguendo tutte le procedure previste per
l’esecuzione dei lavori pubblici. Il programma “Il Mese della
Fenice” rivela che tutta la città partecipa con gioia a questo momento.
Le istituzioni culturali lo testimoniano mettendo in campo idee e
risorse per accompagnare la sua rinascita, dimostrando di aver
partecipato in tutti questi anni al susseguirsi di emozioni che hanno
scandito la storia del nostro teatro, dall’angoscia della notte
dell’incendio al susseguirsi di speranze e delusioni che si sono
avvicendate durante la ricostruzione, fino al momento più lieto e
signifcativo. Dobbiamo essere felici, soddisfatti e grati.Saluto del Ministro per i Beni e le Attività Culturali di Giuliano UrbaniIl
29 gennaio del 1996 il mondo intero assisteva attonito al terribile
rogo che devastò il Teatro La Fenice di Venezia, uno dei luoghi che
hanno fatto la storia della nostra musica operistica e sinfonica. Oggi
gli occhi di tutti ne contemplano la resurrezione, grazie alla positiva
e fattiva collaborazione fra lo Stato e la Civica Amministrazione,
alla provata esperienza di chi ha diretto l’opera di restauro e
all’intenso e sapiente lavoro delle centinaia di operai, artigiani
specializzati negli stucchi, i marmi, i legni, i metalli e gli
intonaci. La straordinaria perizia tutta italiana del recupero del
patrimonio culturale, artistico e monumentale, assieme alla nostra
eccellenza nella tecnica del restauro che tanto prestigio
internazionale porta al Paese, hanno risposto ad una difficile sfida:
restituire a Venezia, com’era e dov’era, il Teatro La Fenice. Ora spetta
a tutti noi, rappresentanti delle Istituzioni e cittadini, contribuire
ad animare la vita di questo grande bene culturale, vita che ha
dimostrato di essere più forte delle avversità. Il mese della Fenice --- a cura del Comune di Venezia ---
Grandi Prime - Grandi nomi alla Fenice
Il Teatro La
Fenice, eretto da una società di palchettisti ex-proprietari del Teatro
di San Benedetto, si presentò fin da subito come il teatro ufficiale
dell’aristocrazia veneziana: tale status si rifletteva anche nella sua
elegante apparenza architettonico-decorativa. Inaugurato nel 1792 con
il dramma per musica “I Giuochi d’Agrigento” del celebre Giovanni
Paisiello su libretto di Alessandro Pepoli e il balletto “Amore e
Psiche” di Onorato Viganò, musicato da Giulio Viganò, il nuovo teatro
assunse immediatamente una posizione di assoluta preminenza nella città
lagunare, riservandosi il genere in musica al tempo più prestigioso,
l’opera seria.Al
San Benedetto e ancor più agli altri teatri minori spettava invece il
compito di allestire le opere comiche. Tutti i teatri veneziani erano
comunque tenuti a rispettare un calendario annuo ben cadenzato: gli
spettacoli si articolavano in tre stagioni, autunno (da ottobre a alla
metà di dicembre), carnevale (dal 26 dicembre fino a febbraio-marzo) e
primavera (aprile-maggio). Gli anni immediatamente successivi
all’inaugurazione non furono memorabili quanto la società dei
proprietari avrebbe forse sperato, nonostante i frequenti allestimenti
di opere appositamente commissionate a compositori di grido come
Giovanni Simone Mayr (“Saffo”, 1794) e Domenico Cimarosa (“Gli Orazi e i
Curiazi”, 1797, rimasta in repertorio per oltre mezzo secolo;
Artemisia, 1801, rappresentata postuma, subito dopo la morte repentina
del musicista nella città lagunare nei primi giorni dello stesso anno).
Delle molte altre novità assolute rappresentate nel primo ventennio
d’attività del teatro si segnala soprattutto la presenza di tutte le
maggiori voci dell’epoca: Giacomo David, Luigi Marchesi, Angelica
Catalani, Gasparo Pacchiarotti, Brigida Banti, Imperatrice Sessi,
Giuseppa Grassini, celebre per i suoi flirt, tra cui quello con
Napoleone. L’affermazione di Rossini, grazie alle farse date al Teatro
di San Moisè tra il 1810 e il 1813, determinò la commissione di
“Tancredi”, rappresentato nel febbraio 1813, che segnò un successo
travolgente per il non ancora ventunenne compositore pesarese. E se
Venezia non accolse con particolare entusiasmo il “Sigismondo”, dato
alla Fenice nel 1814, un vero e proprio trionfo fu tributato a
”Semiramide”, terza primizia offerta alla Fenice nel 1823, quando
Rossini era ormai considerato il più celebre operista del suo tempo. Un
anno dopo sarà ancora La Fenice a consacrare un nuovo astro europeo
con “Il crociato in Egitto” di Giacomo Meyerbeer, alla sua ultima e
decisiva opera italiana prima della partenza per Parigi, dove il
compositore berlinese diventerà il nuovo dominatore del mondo teatrale.
Nei tre lustri successivi non mancano numerose altre prime
rappresentazioni assolute. La prima sera del carnevale, il 26 dicembre,
festa di Santo Stefano, era attesa con trepidazione da tutta la
società più brillante di Venezia: molto spesso prevaleva però nel
pubblico una volontà giocosamente stroncatoria, per cui gli spettacoli
dati in questa serata cadevano, per poi riscuotere maggior entusiasmo
nelle serate successive. Nel teatro veneziano furono rappresentate non
solo molte novità minori di Pacini, Mercadante, Nicolini, Paer, Pavesi,
Generali, ma anche due delle dieci opere di Vincenzo Bellini (“I
Capuleti e i Montecchi”, 1830 e “Beatrice di Tenda”, 1833). Poco dopo
“Belisario” di Gaetano Donizetti entusiasmò la platea veneziana nel
1836, mentre la prima rappresentazione di “Maria di Rudenz”, sempre
dello stesso autore, data durante la stagione di riapertura del teatro
nel 1838 dopo il terribile incendio di pochi mesi prima, purtroppo non
riscosse alcun successo.Voci prestigiose si succedettero
ininterrottamente sul palcoscenico del teatro veneziano, tra cui
Isabella Colbran (moglie di Rossini), Carolina Ungher, Giuseppina
Strepponi (compagna di Verdi), Erminia Frezzolini, Domenico Donzelli,
Giorgio Ronconi, Raffaele Mirate, nonché le tre primedonne più amate
dal pubblico: Giuditta Grisi, Giuditta Pasta e soprattutto Maria
Malibran, che nel 1834-35 interpretò alla Fenice i ruoli di Norma,
Rosina, Desdemona e Cenerentola. Questa cantante usava recarsi ogni
sera a teatro in una gondola color grigio chiaro con interni oro e
scarlatto (il nero tradizionale le sembrava troppo funereo), guidata da
un gondoliere vestito di un singolare costume a colori sgargianti,
disegnato da lei stessa. Compianta dall’intero mondo musicale, la
vitalissima Malibran morì a soli ventott’anni, nel 1836. In suo onore
il glorioso Teatro di San Giovanni Grisostomo venne ribattezzato
"Malibran": questo nome è a tutt’oggi conservato dall’ampio edificio,
poi decaduto a cinematografo e in questi ultimi mesi diventata la
seconda sede della Fenice (la riapertura si è verificata nel maggio
2001). Da metà Ottocento il Teatro La Fenice ospitò una produzione
intensa e prestigiosa seconda solo alla Scala di Milano. Questi due
teatri vantano infatti un legame particolarmente rilevante con Giuseppe
Verdi, che ad essi destinò rispettivamente cinque (La Fenice) e dieci
(La Scala) opere. Il clamoroso esordio di “Nabucco”, rappresentato per
la prima volta alla Scala nel 1842, fu rappresentato lo stesso anno
nel teatro veneziano dopo fu replicato per ben venticinque sere
consecutive: l’esito fu tale da convincere il presidente del teatro,
conte Mocenigo, a commissionare immediatamente un’opera nuova al
giovane compositore emiliano. Quinto titolo verdiano e il primo a
vedere la luce in un teatro diverso dalla Scala, “Ernani” trionfò alla
Fenice nel 1844 anche grazie alla somma abilità degli interpreti (Carlo
Guasco, Sofia Loewe, Antonio Selva) ed aprì una serie trionfale che
comprende “Attila” (1846), “Rigoletto” (1851), “Traviata” (1853: un
fiasco forse non così pronunciato come lasciano pensare le dichiarazioni
’a caldo’ del musicista) e “Simon Boccanegra” (1857), che venne però
accolto solo da un successo di stima. La seconda metà dell’Ottocento
non riuscì ad eguagliare i successi della prima. Dopo la fine della
dominazione austriaca e ormai parte del regno d’Italia, Venezia era una
città impoverita, provincializzata, incapace di tenere il passo con i
maggiori centri del teatro musicale italiano, cioè Milano, Roma ed
anche Torino. Richard Wagner, sebbene residente nella città lagunare
tra il 1882-83, anno della sua morte, sembra non amasse in modo
particolare né i gusti musicali dei cittadini, né La Fenice, dove pare
non abbia mai messo piede. Va però tenuto presente che alla Fenice si
tenne la prima rappresentazione italiana sia di “Rienzi” (1874), sia de
“L’Anello del Nibelungo”, (1883), quest’ultima ad opera della compagnia
itinerante wagneriana diretta da Angelo Neumann. La prima di maggior
spicco degli ultimi anni del secolo è la La bohème di Ruggero
Leoncavallo (1897), che comunque riscosse un successo molto inferiore
all’omonima opera di Puccini, data a Torino l’anno precedente.Ricco di presenze canore di
spicco continua invece ad essere il palcoscenico del teatro veneziano,
dove dopo Felice Varesi e Fanny Salvini-Donatelli, prima Violetta, si
esibirono Marianna Barbieri-Nini, Francesco Tamagno, Gemma Bellincioni,
Rosina Storchio, il veneziano Carlo Galeffi, Hariclea Darclée e - nel
Novecento - Mariano Stabile, Conchita Supervia, Aureliano Pertile, Toti
Dal Monte, Gilda Dalla Rizza, Gina Cigna, Mafalda Favero, Tito Schipa.
Nel secondo dopoguerra Venezia ritrovò il ruolo di grande centro
turistico internazionale e quindi anche di prestigioso palcoscenico
mondiale. In particolare La Fenice non assistette inerte allo storico
confronto scaligero tra Maria Callas e Renata Tebaldi: i loro nomi,
assieme a quello di Giulietta Simionato, cominciano ad apparire nei
cartelloni del teatro dal 1949, quando la Callas affrontò come Elvira i
“Capuleti” di Bellini. Tra i grandi interpreti e i grandi spettacoli
degli anni Cinquanta di questo secolo vanno ricordati Boris Christoff e
Nicola Rossi-Lemeni (Boris e Chovanscina), Sesto Bruscantini, Maria
Caniglia (Tosca), Magda Oliviero (I quattro rusteghi), Franco Corelli
(Fanciulla del West e Carmen), Alfredo Kraus (Traviata), Giacomo
Lauri-Volpi (Trovatore). Nel 1960 Joan Sutherland interpretò il ruolo
eponimo in Alcina; nel 1961 Renata Scotto e Alfredo Kraus animarono una
memorabile “Sonnambula”; Carlo Bergonzi fu protagonista, nello stesso
anno, di un’eccellente “Aida”; Fiorenza Cossotto, Gianni Raimondi,
Ruggero Raimondi, Leyla Gencer, Teresa Berganza, Luciano Pavarotti
approdarono tutti alla Fenice nel decennio successivo e vi rinnovarono
più volte la loro presenza. Meritano di essere menzionate anche le
interpretazioni donizettiane di Monserrat Caballé (“Roberto Devereux”,
1975), di Mirella Freni (“La figlia del reggimento”, 1975) e della
veneta Katia Ricciarelli (“Maria di Rudenz”, 1981), assieme al
“Tancredi” e a “Orlando” di Marilyn Horne e Lella Cuberli (1981 e 1984).Un fatto artistico di
assoluto rilievo è la collaborazione tra il teatro La Fenice e il
Festival internazionale di musica contemporanea di Venezia, entrato a
far parte delle manifestazioni della Biennale dal 1930. Pur tra molte
difficoltà La Biennale continua ancor oggi le sue manifestazioni, che
si tengono di solito nella seconda metà di settembre, subito dopo il
Festival del cinema. A questo raccordo tra istituzioni si deve la
realizzazione di alcune opere fondamentali della storia dell’opera nel
secondo Novecento, tra cui “La carriera di un libertino” di Igor
Stravinskij (1951), “Il giro di vite” di Benjamin Britten (1954),
“L’angelo di fuoco” di Sergej Prokof’ev (1955), “Intolleranza” del
veneziano Luigi Nono (1960), “Hyperion” di Bruno Maderna (1964), “Le
metamorfosi di Bonaventura” di Gian Francesco Malipiero (1966),
“Lorenzaccio” di Sylvano Bussotti (1972) e “Prometeo” sempre di Nono
(1984: per questa produzione Renzo Piano ha disegnato una scenografia
nella chiesa sconsacrata di San Lorenzo). Non va dimenticato che La
Fenice fu anche, in quegli anni e in quelli successivi, un centro
propulsore nella produzione di quelle particolari novità che sono le
’riscoperte’ di testi del passato, da “La Finta pazza” di Francesco
Sacrati (1987) a “Crispino e la comare” dei fratelli Ricci (1983, 1986) e
“Maria di Rudenz” di Donizetti (1981, 1982).
FONDATORI
Fenice un successo
Al successo delle attività della Fenice hanno contribuito:Soci sostenitori
soci benemeriti
•
AIVE spa
Soci ordinari
•
ANCV spa
ATELIER MALIBRAN
Venerdì 12 ottobre 2012 alle ore 19.00 è andato in scena al Teatro Malibran L’occasione fa il ladro, burletta in un atto di Gioachino Rossini su libretto di Luigi Prividali a duecento anni dalla prima assoluta, il 24 novembre 1812, al Teatro Giustiniani di San Moisè. Quarta delle cinque farse composte dal ventenne Rossini per il teatro veneziano tra il 1810 e il 1813, L’occasione fa il ladro costituisce il secondo appuntamento del progetto «Atelier della Fenice al Teatro Malibran», un’iniziativa della Fondazione Teatro La Fenice volta a ridefinire la funzione del Teatro Malibran come centro di produzione sperimentale, attraverso una programmazione continuativa e articolata capace di coinvolgere le giovani energie artistiche presenti sul territorio veneziano.Forte delle felici esperienze di collaborazione con la Facoltà di Design e Arti dello IUAV e con il Conservatorio Benedetto Marcello, la Fondazione Teatro La Fenice ha così deciso di coinvolgere tutti i principali istituti cittadini di formazione artistica, comprese Ca’ Foscari e l’Accademia di Belle Arti, realizzando con l’Atelier della Fenice al Teatro Malibran una sinergia tra le potenzialità creative e produttive del teatro e quelle formative di centri di studi altamente qualificati. Viene così sperimentato un modo diverso di fare teatro musicale, contenuto nei costi ma di livello tecnico e artistico non inferiore agli standard qualitativi che caratterizzano le produzioni della Fenice, che permetterà di rinnovare le proposte del Teatro attraverso l’apporto e l’impiego di giovani talenti e di incrementarne il patrimonio scenico con allestimenti agili e facili da riprendere in qualsiasi momento, dando nel contempo ai giovani più dotati la possibilità di esprimersi artisticamente e di formarsi professionalmente attraverso un lavoro concreto ad alto livello direalizzazione del teatro musicale. Il progetto, che si avvale del coordinamento e della supervisione del direttore della produzione artistica Bepi Morassi, prevede come prima tappa la messa in scena delle cinque farse di Gioachino Rossini (febbraio 2012 l’Inganno felice, L’occasione fa il ladro seguita nel marzo 2013 dalla Cambiale di matrimonio e successivamente dalla Scala di seta e dal Signor Bruschino), con la regia di cinque importanti registi italiani, e scene, costumi e luci a cura della Scuola di Scenografia dell’Accademia di Belle Arti di Venezia che ne segue ogni aspetto, dalla progettazione alla realizzazione. Particolarmente significativo per la storia musicale veneziana, il ciclo rossiniano permetterà di ripercorrere un itinerario storico e artistico che ha contribuito al prestigio della città e dei suoi spazi teatrali cosiddetti minori: scritti da Rossini per il Teatro San Moisè, i cinque atti unici furono infatti presto ripresi in importanti piazze italiane ed europee, determinando l’inizio della fama internazionale del giovane compositore.
Nelle foto in alto i ragazzi dell’Accademia di Belle Arti di Venezia a lavoro sul titolo di apertura dell’Atelier: L’inganno felice. I video sono degli estratti da l’Occasione fa il ladro la seconda farsa di Rossini, andata in scena nell’ottobre del 2012.
SINFONICA
PROSSIMO spettacolo:31/01/2014
ULTIMO spettacolo:02/02/2014
LIRICA 2013/14
PROSSIMO spettacolo:20/02/2014
ULTIMO spettacolo:09/03/2014
CARTELLONE
LIRICA
PROSSIMO spettacolo:13/10/2013
ULTIMO spettacolo:30/10/2013
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